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grandi. Nel che il suo merito è tanto più singolare, in quanto che il suo popolo non vedevasi preparato a così nobile rivoluzione. Allevato fra l'armi, ed avido di gloria guerresca, reduce fra' suoi sudditi, seppe eccitarli all'amor del sapere, ed all'emulazione degli studi; a tal che il Piemonte per riguardo alla coltura delle lettere, ed allo squisito sentire in ogni maniera di letteratura, potè quindi ga. reggiare con tutte le altre provincie dell'Italia, ed anzi dell'intiera Europa.

Nel sincero patrocinio, con cui incoraggiava i dotti, era molto bene assecondato dall'augusta sua consorte, che loro prodigava le sue liberalità. Fornita d'ingegno vivacissimo, e sommamente bramosa di arricchire il proprio intelletto di ogni bella ed utile cognizione, onorava tutti quelli che si distinguevano per copia di lumi scientifici. Autori contemporanei accertano ch'ella scriveva molto bene in prosa ed in versi, e che più lingue tra cui la greca e la latina le erano famigliari. Si fu per compiacere al desiderio die lei. che Jacopo Amyot compose le vite di Epaminonda e di Scipione che mancano all'opera di Plutarco, e delle quali essa deplorava la perdita.

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Per tutte le anzidette cose il regno di Emanuele Filiberto fu illustre, e commendevole per se stesso, e divenne vieppiù glorioso pel contrasto di venticinque anni di sventure che lo precedettero, e di sedici lustri di nuove calamità che gli tennero dietro senza interrompimento.

La storia per altro non può non rimproverare a questo Duca una debolezza troppo comune ai grandi Principi, cioè l'amore sregolato delle donne. Si afferma per altro, che non ebbe mai riprovevoli corrispondenze con femmine maritate, abborrendo dal doppio adulterio; e non sembra, che le molte donzelle, che furono da lui sedotte, abbiano giammai sollevato nubi tra la sua consorte e lui. Parecchi bastardi furono fratti de' suoi illeciti amori, tra i quali è noto principalmente D. Amedeo, ch'egli ebbe da una damigella di Torino per nome Lucrezia Proba. La corte di Torino era in gram festa per l'esaltazione di Arrigo al trono della Polonia, quando vi comparve in età di dodici anni un bellissimo fanciullo non prima veduto nè conosciuto, perchè era stato secretamente

allevato in una villa poco distante da questa capitale. Questo giovane fu appunto il D, Amedeo, ch'ebbe Emanuele Filiberto dalla torinese zitella. L'esempio di virtù, che di se stessa › diede in tale occasione Margarita di Francia, moglie di Emanuele Filiberto, fu veramente ammirevole: non guardò di mal occhio quale sdegnosa matrigna il giovane Amedeo; ma qual madre amorevole, chiamatolo a sè, con parole di singolare benignità si pose ad accarezzarlo. Piacque soprammodo al Duca il contegno di sua moglie in quest'occasione: indi a pochi giorni il Duca non dubitò di produrre in pubblico il figliuolo avuto da Lucrezia Proba, lo legittimò, e fecelo riconoscere dagli ordini e dai magistrati per quello ch'egli era. D. Amedeo ebbe dal suo padre la signoria di s. Ramberto e di s. Germano, feudi esistenti nella provincia del Bugei, ed eretti poscia in marchesato; fu quindi creato cavaliere gran croce de' ss. Maurizio e Lazzaro, commendatore della Savoja, cavaliere dell'ordine dell'Annunziata e luogotenente generale dell'armi di là dai monti. Mori Amedeo nel 1610, e lasciò un figliuolo illegittimo, chiamato Maurizio, che finì i suoi giorni in tenera età, ed una figlia, per nome Margarita, che diè la mano di sposa a Gerolamo conte di Rossiglione, marchese di Bernezzo.

Da Laura Crevola, damigella vercellese, ebbe Emanuele Filiberto una figliuola naturale, per nome Maria; giunta questa al terzo lustro dell'età sua, fu dal Duca dichiarata legittima e data in moglie al principe Filippo d'Este, il quale possedeva ampie ed antiche giurisdizioni, venutegli dal padre e da’suoi maggiori, onde poteva risplendere senz'altro, conforme alla sua condizione di consanguineo e stretto parente del duca di Ferrara, allora vivente. Ciò non di meno Emanuele Filiberto volle fargli perpetuo dono di Lanzo e delle sue pertinenze con titolo marchionale; e da questo maritaggio con Maria di Savoja e Filippo d'Este discesero i marchesi di Lanzo, che dai Sovrani sabaudi ebbero i primi comandi delle armi e le prime dignità della corte.

Gli altri figli illegittimi ch'egli ebbe, furono: D. Filippino, cavaliere gran croce dell'ordine di s. Giovanni di Gerusalemme, ucciso in duello dal signor de Crequì, nipote del celebre Lesdiguières, nel 1599: Matilde, maritata a Carlo di

Simiana, signor d'Albigny; sua madre fu Beatrice di Langosco, figlia del gran cancelliere; Beatrice, che sposò, Besso Ferrero Fieschi, marchese di Masserano: Ottone, morto nell'infanzia Pietro Luigi, che non fu riconosciuto, e la cui genitrice fu Susanna Des Adrets, damigella del Delfinato. - Per iscusare queste violazioni alla fedeltà conjugale, alcuni inverecondi scrittori giunsero a dire, che sono esse una prerogativa dei Principi, e che ai tempi di Emanuele Filiberto Sovrani se ne davano un vanto; infame vanto, diciamo noi, perocchè dalla sfrenata libidine de' regnanti suol derivare il mal costume dei loro sudditi..

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Nel medesimo tempo, in cui Emanuele Filiberto affaticavasi per i suoi stati, ed a ricondurne le popolazioni all'utile operosità ed all'incivilimento in seno ad una pace, ch'egli studiosamente conservava con tutti, la vicina Francia provava nel suo interregno gli amarissimi frutti dell'indegna protezione da lei conceduta ai nuovi eretici protestanti dell'Alemagna e della Svizzera, dei quali ogni dì più cresceva l'insubordinazione religiosa e civile. Questi novelli settarii insinuaronsi nella Francia, vi si fecero molti seguaci, che sotto il nome di Ugonotti infierirono durante i regni di Francesco 11, Carlo IX ed Enrico II, assaliti l'un dopo l'altro al soglio in giovine età, e dominati dalla loro, madre, Catterina de' Medici, donna di vasti concetti, ma di animo sommamente ambizioso e corrotto. La possanza dei furibondi Ugonotti tanto crebbe e si dilatò, che pel corso di un mezzo secolo potè empiere d'orrori e di sangue quel reame, ed estinguere nella casa reale la linea de' Valesii. In que' tempi disastrosi il marchesato di Saluzzo, ch'era venuto in mano dei Francesi, già trovavasi in parte infestato da Ugonotti audacissimi; e la città di Dronero specialmente sarebbe divenuta un nido di eresie, e la valle del Maira emulato avrebbe la pervicacia delle valdesi vallate, se Iddio non permetteva tali avvenimenti da render vuote d'effetto le mal concepite speranze dei nemici della religione cattolica.

È da credere che il duca di Savoja, il quale sapeva di aver diritti sulla marca saluzzese, guardasse con occhio vigile tutti i movimenti pericolosi, che vi accadevano; e pure se ne mostrava indifferente; tanto più che, affievolito dalle

guerresche spedizioni sostenute durante la vita del suo infelicissimo genitore, e poi da venti anni di continue fatiché sul trono, fu colto da un'idropisia, che lo avvertì di prepararsi alla morte. Disgustato delle grandezze del mondo, e più non pensando che al ritiro, Emanuele Filiberto rimise al suo figliuolo, tuttochè ancor giovanissimo, una parte del peso degli affari, e passò gli ultimi anni di sua vita or nel castello di Lucento ed ora in quello del Valentino. Una febbre di tre giorni lo condusse alla tomba nella sua età di cinquantadue anni, il 30 d'agosto del 1580. Non si può esprimere coo parole il cordoglio della città di Torino per la perdita di un così gran Principe. Emanuele Filiberto adottò più divise, secondo le congiunture dei tempi ; la prima fu un braccio nudo, che teneva impugnata una spada col motto Spoliatis arma supersunt; la seconda, quando creato generale delle armi di Spagna guerreggiava in Fiandra, fu un elefante vicino ad una mandra di pecore col motto Infestus infestis, volendo indicare ch'ei sarebbe stato molesto achi cercasse di offenderlo; la terza fu coniata in guisa di moneta dopo la celebre battaglia di s. Quintino; e nel rovescio vi erano due eserciti venuti a cimento tra loro, col molto pugnando restituit rem. L'ultima divisa fu alzata dopo che gli furono restituiti gli stati sabaudi, ed avea questa un fascio d'armi legate insieme, con le seguenti parole: Conduntur, non contunduntur; insegnando con ciò, ch'egli era pronto a ripigliare le armi contro chi avesse avuto pensiero di mo lestarlo.

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XLVII.

Carlo Emanuele I: a malgrado di sue imprese gigantesche
rovinose i Torinesi gli portano grande amore, e gliene dauno
una prova memoranda.

Emanuele Filiberto mancò ai vivi in circostanze, in cui la rettitudine del suo giudizio e la maturità de' suoi consigli sarebbero state assai più proficue al nostro paese, che non l'audacia del di lui figliuolo, il quale avea fuor d'ogni dubbio mente sublime, e capacissima di alti disegni, ingegno vivacissimo e pronto, attività inarrivabile nel trovar partiti e nel

l'eseguirli; il suo genio per altro era molto più vasto di quanto il fossero gli stati lasciatigli dal genitore, e si diede ogni tormento per ingrandirli: ei fece grandi cose per giungere alla meta che si era prefissa: una gravi contrasti ed inaspetLati rovesci finirono per fargli espiare i torti di un'ambizione e di una politica più di una volta biasimevole.

Innanzi a tutto il giovine duca Carlo Emanuele per affezionarsi l'esercito accrebbe in modo esagerato i privilegi già conceduti ai militi dall'augusto suo genitore. Si fece quindi a propagare lo stabilimento della provinciale milizia al di là dai monti, e inorpellando queste disposizioni col pretesto di voler far rivivere le sue ragioni sul Monferrato, levò parecchi, reggimenti di fanti. Il dare quel maggior perfezionamento allo stato militare fu subito una delle sue principalissime cure. Egli voleva far guerra; voleva aumentare gli aviti dominii, e presto diresse i suoi tentativi ad impadronirsi delle terre bagnate dal lago di Geneva; a conquistare la marca saluzzese; a pretendere al trono di Francia; a rannodare gli accordi coi Cipriotti per ricuperare la loro isola; a sostener due volte la guerra per l'acquisto del Monferrato; a chiedere il Milanese come retaggio, che Ludovico il Moro usurpò sulla di lui famiglia; a richiamar la Bretagna come una successione che gli fosse devoluta in virtù di una confusa genealogia; ad aspirare al regno di Portogallo in qualità di nipote di Emanuele il Fortunato; a conquistare le riviere, ligustiche, ed anzi la loro munitissima e ben difesa capitale.

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La prima impresa dell'arditissimo guerriero su diretta contro la ribelle Ginevra; ma prima di tentarla, egli, a sollecitazione del papa Gregorio XIII, s'impegnò in altro affare, che quantunque di minor rilievo fu tuttavia per cagionargli fastidiosa contesa con gli Spagnuoli padroni dell'Insubria. Tra le terre rilevanti dalla sede apostolica nel temporale come feudi eravi il castello di Cisterna posto tra i confini dell'Astigiana e l'alto Monferrato, ed appartenente allora alla diocesi d'Alba. Era in possesso di quel castello un Borso Acaibo, gentiluomo milanese, suddito perciò del re di Spagna e protetto da lui. II Borso, o per suggestione degli Spagouoli, o per sua propria fierezza, ricusava di riconoscersi

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