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gli rappresentò l'aperta inimicizia di Spagna, gli armamenti di Milano, il pacifico contegno di Venezia e del Papa, le insidie del nunzio apostolico, il proprio pericolo, e la necessità dei pronti soccorsi di Francia: l'ambasciatore gli rispose che riposasse pure sicuramente nel favore di Francia, quando assalito fosse, ma che non doveva con azioni imprudenti provocare gli Spagnuoli all'aggressione.

Poco tempo dopo accadde in Torino un cupo ravviluppamento, che si convertì in qualche sangue, e per poco stelte che non si convertisse contro i Francesi in vespri piemontesi ad imagine di quelli tanto famosi di Sicilia. Correva it sesto giorno di giugno del 1611, quando levossi subitamente in questa capitale verso l'ora di mezzodì, una gran voce che il Duca fosse morto, trafitto da un colpo d'archibugio dai Francesi, mentre stava passeggiando nel parco. Non si stette a domandar se vera fosse quella voce: presto la città andò sossopra: uscivano i Torinesi armati a furia dalle loro case, e per le piazze e per le vie correndo minacciarono di far macello di Francesi. Gridavano terribilmente, morte ai Francesi traditori che hanno ammazzato il nostro Duca. Le stesse donne più furiose degli uomini gridavano rabbiosamente, ammazza, ammazza. I Francesi così chiamati a morte, fuggivano a corsa, e chi nelle case e chi ne' luoghi sacri cercavano scampo. L'ambasciatore Gueffier si era nelle sue stanze rinserrato; i più ragguardevoli col duca di Nemours eransi rifuggiti nel palazzo ducale. Chi aveva la disgrazia d'esser preso, diveniva segno di ogni più brutto vilipendio, e caricato d'ogni più villana ingiuria, chi spogliato, chi battuto, chi ferito, chi morsicato a rabbia da bocche furibonde. Molti gentiluomini e capitani illustri trovavansi a quel tempo in Torino, i quali stati per lo innanzi ai soldi di Carlo Emanuele, ed ora licenziati compárivano per ricompensa degli antichi servigi, adorni di collane d'oro, e di altri fregi di gran valore. Contro di costoro si avventava con maggior impeto la folla, e li maltrattava e scherniva chiamandoli perfidi e traditori. L'alto rumore propagossi da Torino nelle circostanti campagne. Ciascuno raccontava la sua chimera, e chi più la diceva strana, più era creduto. Per verità non molti furono i morti, perchè poco numerosi erano i Francesi in questa

città, ed i più avevano dendosi.

trovato ricovero sicuro nascon

Il Duca stanco d'una lunga udienza s'era posto a dormire, quando incominciò il tumulto. Svegliato al rumore, e da chi correndo andava e veniva per le stanze, domandò qual novità fosse quella, che sentiva. Gli fu detto che erasi sparsa la voce ch'egli era stato ucciso per mano di Francesi, e che perciò il popolo infuriato correva verso il palazzo, voleva vedere almeno il suo corpo morto, e trucidare ogni Francese che vi si fosse ricoverato. Il Duca meravigliandosi dello strepito e del pericolo, s'affacciò subito alla finestra, perchè il popolo, di cui era piena la piazza, il vedesse; indi comandò al marchese di Lullin, che scorrendo per la città, chi era ingannato disingannasse. Faceva intanto segno colla mano al popolo, che si acquietasse e deponesse le armi. A prima giunta il credettero un fantasma od una larva, tanto era fissa la opinione della sua morte; ma quando si accorsero per la vista dell'amato signore, esser falso ciò che avevano stimato vero, e vivere chi avevano creduto morto, non si potrebbero con adeguate parole descrivere le esclamazioni, le acclamazioni, gli strepiti dinotanti un immenso giubilo. Duca vedendo ingrossare sempre più il popolo, prese consiglio di passeggiare per la città: ovunque volgeva il passo, più accorreva la folla, e più si moltiplicavano le festive grida. Tutti amavano di vederlo, udirlo, toccarlo: dicevano essere rinati, essere risorti. Infine tornò la calma in Torino.

Restò nel Duca una gran contentezza per le dimostrazioni così vive fatte dai Torinesi di amare il suo imperio; ma gli ottenebrava la mente un grave sospetto sulle segrete cagioni del tumulto. Sapeva che gli Spagnuoli mal volentieri vedevano la sua aderenza con la Francia, e che niuna cosa più bramavano che di poter metter male fra lui e la regina: non gli erano nascoste le trame già ordite da loro per deporlo dal soglio, e porgli in suo luogo il figliuolo Vittorio. Dubitava pertanto che l'accidente fosse un'insidia spagnuola per separarlo da Francia. Si sparse il grido degli incitamenti spagnuoli; e questo grido erebbe vieppiù quando i Torinesi si avvidero, che troppo rimessamente si ricerca

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rono gli autori dell'improvvisa rabbia: avvisavano che la giustizia procedesse mollemente, perchè gl'indizii erano contro personaggi troppo eminenti. Si mormorò perfino del principe Vittorio; certo è che la regina di Francia ne lo credette colpevole; a tal che il Duca spedì ordine a Jacob suo ambasciadore a Parigi, affinchè rappresentasse alla Regina il tumulto essere stato a caso, e lui segno, non cagione. Rispose la Regina, che lo credeva, ma che avrebbelo più ancora creduto, s'egli avesse dato castigo ai primi offenditori dei francesi in Torino. Conoscendo poi il Duca la subitezza d'animo del Lesdighières, gli mandò il colonnello Alard a dirgli che non solo eragli spiaciuto quell'impeto sconsigliato, ma l'aveva anzi sin dal suo principio raffrenato è composto.

Carlo Emanuele non potè nè anco fuggire gl'infortunii domestici sospetti in casa gli turbavan la mente, perchè gli Spagnuoli l'avevano messo in diffidenza co' suoi figliuoli, ed erasi sparsa una voce in Torino, che il suo primogenitó volesse dedicarsi a vita monastica vestendosi cappuccino, e da alcuni dicevasi pure ch'ei volesse fuggire.

Se Carlo Emanuele non lasciava riposar nessuno, nissuno ancora lasciava riposar lui: da nuove ambiziose sue voglie, nuovi disgusti e danni gli sopravvennero. Per la morte di Vincenzo Gonzaga marchese di Monferrato, avvenuta nel 1612, e per quella del di lui figliuolo Francesco, che accadde nel medesimo anno, e lasciava una sola figliuola fanciulla, la successione eventuale rimaneva in questa fanciulla per nome Maria. Già due volte l'augusta Casa di Savoja aveva posto innanzi i suoi diritti a tal successione; ed ora Carlo Emanuele più ardentemente de' suoi predecessori manifestò le sue pretensioni; e credendo di accorciare la via al conseguimento del suo desiderio, stette contento in sulle prime a chiamar la tutela di Maria, cui voleva dare in isposa al suo figliuolo con intendimento di riunire tutti i diritti; ma la tutela di questa fanciulla principessa gli fu senz'altro apertamente niegata; ed egli incollerito con buon nerbo di truppe entrò ostilmente nel Monferrato, l'anno 1613. La Spagna non volle comportare quell'audace invasione; e ne seguì una guerra che durò quattro anni; si venne a trattative di concordia,

e nel 1617 stipulossi un accordo, per cui le cose furono restituite nello stato primiero; ed il nostro Duca dovette esser pago di aver avuto il coraggio di resistere alle forze del potente Re cattolico.

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Indi a poco tempo la Valtellina cattolica sollevavasi contro i Grigioni protestanti e signori di essa. La Spagna si pose con fervore a soccorrere la Valtellina, la Francia si procacciò l'alleanza del Duca di Savoja, e del senato veneto per proteggere i Grigioni. Si ricominciò la guerra, e ne furono estese le ostilità. Le truppe di Francia unite a quelle de' Savoini e Piemontesi mossero contro la ricca Genova massimamente nello scopo d'impadronirsi del tesoro di s. Giorgio; e Carlo Emanuele in questo tentativo non dubitò di farsi complice di un'orribile congiura contro quella repubblica; della quale congiura abbiam dovuto narrare senza raccapriccio le infami particolarità nella Storia di Genova. La Francia veduto il mal esito di quella spedizione, se ne ritrasse; si fece quindi la pace di Monzone (1626) tra Francia e Spagna, e Carlo Emanuele se ne dovette acquetare in quello stesso anno essendo morto il cardinale Ferdinando Gonzaga, che avendo ricevuto gli ordini sacri non poteva ammogliarsi; e nel 1627 essendo pure mancato di vita senza figliuoli il di lui fratello Vincenzo, loro succedettero a quel dominio la loro nipote Maria, e il di lei marito Carlo Gonzaga già duca di Nevers affezionatissimo alla corte di Parigi. Carlo Emanuele cupidissimo di avere il Monferrato, di cui già sin d'allora riteneva una gran parte, senza frapporre indugi mosse le sue truppe per acquistare intieramente la marca monferrina. Contro Carlo Gonzaga si dichiarò l'Austria, e gli si manifestò in favore la Francia. Si fece un'aspra guerra in tutto il Piemonte; il nostro Duca quantunque già avanzato negli anni, e malfermo in salute vinse i Francesi nel 1628; ma ne fu vinto nel seguente anno, ed ebbe il dolore di perdere la Savoja, l'importante piazza di Pinerolo e quella di Saluzzo. Dopo che i Francesi occuparono quest'ultima piazza, si videro altri corpi di galliche truppe discendere precipitosi per la valle di Maira ad ingrossare l'esercito di Luigi XIII; e già il sabaudo Sovrano correva ad incontrarli, quando giunto a Savigliano il 23 di luglio

del 1630, fuvvi assalito da un colpo di apoplessia, che tre giorni dopo lo trasse alla tomba.

La vita e la morte di questo Principe dimostrarono quanto acuti stimoli di pentimento tormentino le anime ambiziose ed irrequiete, e quanto pernicioso consiglio per lui e più ancora per i sudditi suoi, e principalmente pei buoni Piemontesi fu il non aver dato ascolto al ricordo del prudente suo genitore di tener unite le corone di Francia e di Spagna, ed in caso di rottura di aderirsi piuttosto a quella che a questa; onde invece di lasciare con l'ingrandimento dei suoi dominii chiarissima la memoria del suo nome, pensiero in cui avea consumato la sua vita, lasciolla con taccia d'aver fatto scemo il suo stato da una parte, e servo dall'altra: la perdita di Pinerolo spegneva la libertà del Pic

monte.

XLVIII.

Sull'indole di Carlo Emanuele I; durante il suo regno la pietà dei
Torinesi era confortata quattro volte dalla presenza di s. Fran-
cesco di Sales.

I savojardi scrittori contemporanei diedero a Carlo Emanuele il soprannome di Grande; e i posteri che giudicano sempre con maggiore severità, non gliel potrebbero contrastare, s'egli dei rari pregi, ond'era fornito a dovizia dalla natura e dei vasti lumi, di cui erasi arricchito la mente con lo studio, non avesse abusato sino alla presunzione con grave danno di sè, di sua famiglia, e colla rovina de' sempre fedeli suoi sudditi.

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Un moderno scrittore di chiaro nome dice che Carlo Emanuele cercò di riscuotere l'Italia dal giogo degli Spagnuoli, e che forse avrebbe ottenuto effetti conformi al generoso intento, se non gli falliva a tempo debito il convenuto soccorso dei Veneziani. Questa sentenza che ci pare avventata, o più veramente cortigianesca, vuol essere rettificata così: Carlo Emanuele I avrebbe l'eterna riconoscenza degl'Italiani, se l'unico suo scopo fosse stato quello di liberare l'Italia dal giogo straniero. Lo ebbe questo scopo, è vero, ma con ben altre mire, cioè con quelle di dominare

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