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del santo vescovo, e diede poi sempre non dubbié prové del suo ravvedimento. Si narra che la principessa Cristina regalasse un prezioso diamante a s. Francesco di Sales nell'istante in cui egli stava per dipartirsi da Torino, colla condizione che lo portasse, nè potesse venderlo: sin a tanto, rispose il Salesio sorridendo, che i poveri non ne abbiano bisogno. Dopo quest'ultima partenza da Torino il santo vescovo più non sopravvisse che pochissimo tempo, avendo cessato l'apostolica sua carriera in Lione il 28 dicembre dello stesso anno 1622. Le tante eroiche sue virtù, e i molti prodigi, coi quali Iddio lo illustrò dopo la sua morte gli meritarono prestamente l'onor degli altari. Parecchi torinesi rammentavansi ancora di averlo visitato in questa città, e di averne udito le faconde e commoventi concioni, quando da Roma uscì la bolla di sua beatificazione, l'anno 1661. Appena fu essa pubblicata, il corpo di città volle solennizzare l'annunzio con illuminazioni, e coll'accendere un fuoco di gioja sulla piazza del castello. Poscia, allorchè il 29 di maggio del 1665 si festeggiò la canonizzazione di lui nel monastero della Visitazione, il consiglio decurionale vi mandò un bellissimo stendardo coll'effigie del santo, e fece anche alzare sulla piazza d'erbe una macchina di fuochi artificiati: tutti i contrassegni della particolar venerazione in cui ebbesi un santo nostro connazionale, e così benemerito della chiesa torinese.

Se Carlo Emanuele I è degno di lode per avere manifestato a s. Francesco di Sales il desiderio che il Ciablese fosse icondotto all'unità della fede cattolica, non può esser tolto al biasimo di non aver procacciato, se non dopo calde e reiterate istanze, al gran prelato quei soccorsi che erano in lui, per agevolargli alquanto la magnanima impresa: nè alcuno può sottrarre quel principe dalla taccia di aver coneepito sinistre idee sulla condotta politica dell'egregio vescovo, e di averle nodrite lungamente nel sospettoso animo suo: ma Carlo Emanuele I al paro di non pochi altri regnanti accoglieva troppo di leggieri le calunnic a danno, e talvolta anche a rovina delle persone più benemerite: di tale inescusabile colpa i dominatori dei popoli non pensano di dover rendere un conto strettissimo al tribunale di quel Vindice supremo, che giudica inesorabilmente gli uomini, é con

maggiore severità quelli che li governano in questa terra d'esiglio.

XLIX.

Vittorio Amedeo I la peste imperversa in Torino:
quanto vi si fa per iscemarne gli orribili effetti.

Il maggiore de' figliuoli di Carlo Emanuele I, che sopravvissero al padre, Vittorio Amedeo parimente primo di questo nome, aveva quarant'anni, passati dopo la prima educazione negli esercizii militari e più ancora in negoziati politici mandato dal padre più volte alle corti ora di Spagna, ora di Francia, e più fiate a Mantova. Egli era perciò informatissimo degli interessi e dei disegni delle corti d'Europa ; ma nella sua corte fortemente inquietato per i sofferti rigori a cagione dei sospetti che contro di lui avevano inspirato al suo genitore i falsi rapporti de' cortigiani: sicchè la vita ristretta e la dipendenza in cui Vittorio Amedeo visse prima che pervenisse al trono, dovevano averlo assuefatto alla dissimulazione, alle dubbietà ed alla pazienza. Quando egli assunse le redini del governo lusingar nol poteva la corona, di cui cingevasi la fronte, vedendo che per l'ambizione e Ja spensieratezza di suo padre eransi accumulati sovra i suoi popoli i peggiori mali che possano desolare una nazione. Orrida a quel tempo e quasi incolta era la regione subalpina: sforzato dalle necessità presenti, indotto da concetti smisurati, immoderato nelle spese, Carlo Emanuele aveva con gravezze e soprappesi insopportabili consumato il paese, e mandati gli abitatori alla guerra. Sorse poi il contagio, che eon frequenza incredibile togliendo gli uomini di vita, struggeva quanto era sfuggito all'avidità del fisco e alla rabbia dell'armi. Flagelli orribili, ma non peggiori dell'amicizia degli spagnuoli e dell'inimicizia dei francesi; perciocchè questi e quelli con le rapine e con le uccisioni barbaramente straziavano il misero Piemonte. Mancavano i mariti alle mogli, i padri ai figliuoli, le mani alla coltura, sicchè deserti restavano i campi.

Vittorio Amedeo, di pensieri più misurati, e più amico

delle convenienze esteriori che il padre, dava speranza, che da quel rotto procedere si asterrebbe, ed incamminerebbe le cose ad uno stalo pacifico. Di ciò tanto miglior concetto si facea di lui, che per avere moglie francese, ed essere stato parecchie volte per feste e per negoziati in corte di Parigi, si argomentava che inclinerebbe l'animo piuttosto alla parte di Francia che a quella di Spagna: dal che si veniva a conchiudere che coll'appoggio della prima, atta a fare maggiore sforzo in Italia, si costringerebbe la seconda a consentire a qualche ragionevole accordo. Pratico delle faccende si civili che militari pel lungo uso procuratogli dal predecessore auguravano i popoli che il nuovo duca aggiungesse al buon volere la perizia dell'operare; e che non si sarebbe più perseverato in tante molestie: poi, come suole accadere nelle disgrazie e nei principii dei nuovi regni, si sperava perchè si soffriva.

di

Innanzi a tutto Vittorio Amedeo affrettossi a provvedere pane i tanti suoi sudditi che altramente sarebbero periti della fame. Era esaurito il pubblico erario; immensi erano i debiti che dal suo padre gli erano lasciatica soddisfare; ed ei non dubitò d'incontrarne di nuovi per sottrarre Torino, e tutto il paese di cui questa città è capitale, da una orribile carestia, confidando di poter quindi ristaurare le sue finanze mercè dei risparmi, e di una saggia economia. Ben vide la necessità di procurare a' suoi stati la pace, e vivamente bramava di procurarla ; ma suo malgrado dovette ancora proseguire la guerra, del cui esito farem cenno dopol aver indicato in che modo spaventoso infieriva a quel tempo la pestilenza nella nostra capitale e nelle altre terre subalpine. Orridissimo scempio avea già fatto il contagio in Torino nel 1522; parve cessare in febbrajo del 1523; ma ricominciò ad imperversare nel seguente anno. Verso il fine di quel secolo i popoli d'Italia che già più volte erano stati colpiti dall'orrendo flagello, omai speravano di essere liberati, quando esso ricominciò con ispaventevole strage. Restarono pressochè vuote di abitatori, parte fuggiti, e in grandissimo novero estinti, le città di Venezia, Padova, Vicenza, Mantova, Brescia, Milano, Pavia, e ne furono immuni sino all'anno 1576 la città di Torino e tutte le altre terre del Piemonte,

come ce ne accerta uno scrittore che viveva a quel tempo: ad hune usque annum 1576 Taurinum et subalpina ditio a funesta peste... incolumes servatae sunt. Emanuele Filiberto avea usato con paterna sollecitudine d'ogni precauzione sulle frontiere de' suoi dominii, affinchè il pestifero morbo per via di contatto non si potesse insinuare: avea creato un magistrato, detto della sanità, che si mutasse d'anno in anno, col carico d'invigilare e d'esplorare sollecitamente per via di messi e di lettere in quale stato di sanità vivessero i popoli vicini e lontani: aveva ordinato che, avuta notizia che alcuna terra o città fosse appestata o sospetta, se ne dovesse severamente interdire, sotto pena della vita, ogni commercio, e vietare l'ingresso ne' suoi dominii a chiunque di là venisse: che it magistrato prescrivesse condizioni da osservarsi inviolabilmente, dovendo ricevere nelle terre de' suoi stati le persone che vi si riconducessero da estranei paesi: che se ne promulgasse per tutte le terre l'editto, affinchè non si potesse in verun luogo ignorare, e osando alcun malizioso contravvenirgli, fosse irremissibilmente fatto morire. In questa maniera, avuta sempre tempestiva notizia de' luoghi infetti, et toltone di mezzo, con l'autorità del sovrano e con la vigilanza del magistrato, ogni commercio, erasi eonservato illeso il Piemonte.

Ma, sotto Carlo Emanuele I, s'introdusse di bel nuovo il contagio in alcune parti del Piemonte; e quel Duca, per consiglio del venerabile padre D. Alessandro de' marchesi di Ceva, eremita camaldolese, fece voto di fondare un sacre eremo sopra i monti ed a levante di Torino. Quel pio voto fu eseguito nel modo che abbiam riferito al luogo opportuno.

Sommamente sollecito ad allontanare l'orribile flagello fu allora il consiglio civico di Torino. Da un libro ms. che conservasi negli archivi di questa città, intitolato: Instruzioni sanitarie dal 1593 sino al 1832, chiaramente si conosce che si diedero dal corpo decurionale tutti i più opportuni provvedimenti sanitarii per impedire i progressi della terribile pestilenza; si vede eziandio che esso usando tutti i mezzi igienici cui l'arte medica seppe in allora suggerire, non omise di placare con atti religiosi lo sdegno di Dio; risulta infine che la civica amministrazione di Torino in tempo di

così grande calamità spendeva quattordici mila scudi ogni mese per provvedere i cittadini delle cose necessarie alla vita, perchè gli assaliti dal morbo fossero bene assistiti negli appositi lazzeretti, e si seppellissero senza ritardo i cadaveri, e la città fosse sgombra dalle immondezze. Già sin dall'anno 1598, con ordinato del 26 di maggio, il consiglio civico di Torino facea voto di ampliar la cappella del Corpus Domini, per implorare dalla divina misericordia che questa città fosse preservata dal fatal morbo ́; in adempimento di questo voto cominciò fissare la somma di mille scudi d'oro. Posteriormente, cioè in novembre del 1629, lo stesso consiglio obbligavasi di solennizzare per cinque anni avvenire la festa di M. V. concetta senza peccato in una cappella sotto tale titolo esistente nella chiesa di s. Francesco d'Assisi, come anche di contribuire per cinquanta ducatoni all'erezione di una cappella in onore della B. V. di Loreto nella chiesa di s. Dalmazzo: aveva inoltre deliberato di rinnovare per cinque anni il voto già fatto nella precedente pestilenza, cioè quello d'intervenire alla festa di s. Valerico nella chiesa di s. Andrea.

Ma quando pareva che diminuissero i perniciosi effetti del pestifero morbo, esso ricomparve in Torino assai più spaventoso nel 1630. Varie relazioni più o meno particolareggiate, che ne lasciarono alcuni contemporanei, mettono il raccapriccio negli animi, e massimamente la descrizione degli ineffabili danni da quel contagio prodotti nella nostra capitale, lasciataci dal protomedico Gian Francesco Fiochetto nel suo Trattato della peste di Torino. Tra i molti casi narrati da lui, alcuni fanno inorridire per la loro malvagità, ed alcuni commuovono altamente i cuori alla compassione. Con diversi sintomi, ma tutti orribili, manifesta vasi il malore in quelli che n'erano assaliti, Lo spavento avea fatto sì, che al primo infuriare dell'orrendo flagello tutte le persone della corte del duca uscirono da Torino a preghiera del consiglio della sanità; ne uscirono eziandio tutti i pubblici uffiziali d'ogni dicastero, i quali si trasferirono qua e là nei siti del Piemonte non ancora infetti; le famiglie più cospicue e facoltose, dipartendosi dalla capitale riparavano nelle provincie, dove minori pericoli apparivano della fatal malattia; e lo

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