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stesso tribunale, che prendendo nome dalla sanità erasi specialmente stabilito in Torino per consultare su di essa, e per amministrarvi giustizia, poco rimaneva in ufficio, parte per essere alcuni che lo componevano sorpresi dal pestifero morbo, e parte, conviene pur dirlo, per essersi sottratti al pericolo col cessare dalle incumbenze loro commesse ; la città pareva ridotta ad un orrido deserto, o piuttosto ad un campo di battaglia, ove ad ogni passo incontransi cadaveri feriti e languenti. Fatto è che di undici mila abitanti a cui sommava la popolazione rimasta in Torino, solo tre mila scamparono dal morbo.

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A provvedere agli urgenti bisogni dei cittadini, alla salute pubblica, ad amministrar la giustizia, a mantenere quel miglior ordine che si potesse in così doloroso frangente, più non rimasero in Torino che tre uomini ben degni di essere commendati alla memoria dei posteri, cioè Gian Francesco Bellezia ch'era sindaco di questa città, Gian Antonio Beccaria, e il sopraccennato protomedico Fiochetto.

Agli orrori della pestilenza si univa la baldanza dei tristi che giravano nelle case a rubacchiare, onde vieppiù cre-. scevano la confusione ed il terrore nei pacifici e nei deboli. Per sommo de' mali la chiesa di Torino era vedova del suo pastore, e il torinese arcivescovo Provana non fu nominato che sul finire del 1631. In tanta costernazione e miseria cadde infermo lo zelantissimo sindaco Bellezia, il quale giacendo sur un letticciuolo in una camera a pian terreno, onde poteva esser veduto e inteso, dava ordini opportuni al protomedico Fiochetto e all'avvocato Beccaria auditore di camera, il solo che era qui rimasto del consiglio sanitario. Questi tre umanissimi e sommamente benemeriti gentiluo--. mini non si stancarono mai in provvedere ai malati, in far seppellire i morti, in salvare i bambini piangenti sul seno delle madri o morte o moribonde, in cercar vettovaglie, nel perseguitare i malvagi, in salvar la città dal totale sterminio. In così trista condizione di cose risplendeva l'ardente zelo degli ecclesiastici, e massimamente di quelli aventi cura d'anime, che rimasti a prestare i soccorsi della religione agli appestati, per la più gran parte caddero vittime dell'eroica loro carità,

Frattanto l'egregio sindaco Bellezia in mezzo a tante sue cure (giova pur dirlo) non tralasciava i mezzi religiosi. Troviamo di fatto che dal principio del 1650 sino al fine de! 1633, parecchi altri voti si fecero per la cessazione dell'or ribile contagio, e segnatamente quello di rifare nella chiesa metropolitana la cappella in onore di s. Secondo, e di assistere per un decennio alla processione in cui portavansi le reliquie di questo santo; ed il voto d'intervenire eziandio per dieci anni alla processione di N. D. del Rosario, che solean fare i padri di s. Domenico, donando una bellissimat lampada all'altare della B. V. venerata sotto un tal titolo; e così pur quello che fu poi sempre osservato di assistere ogni anno alla festa de' ss. Martiri protettori della città di Torino, e di far dipingere i due coretti della loro cappella maggiore; la quale opera fu trasmutala in tre statue argentee, rappresentanti i tre santi martiri. Poscia con ordinato del 16 d'agosto del 1631 si determinò di recarsi alla processione che si fece in quel giorno medesimo colla reliquia di s. Rocco, e di offerirgli una tavola votiva in argento del valore di cinquanta ducatoni.

Parecchi altri atti religiosi vennero ferventemente praticati in varie chiese di Torino in quel miserrimo tempo; e vuolsi particolarmente notar quello con cui si eseguì, nel quinto giorno di luglio del 1632, un voto ch'erasi fatto nel più fiero incrudelire della pestilenza: ecco il modo con cui venne eseguito: i due sindaci con dieci decurioni a ciò deputati, vestitisi in abito da pellegrino di saja bigia e col bordone in mano, si avviarono dal palazzo civico alla chiesa del Corpus Domini: quindi accompagnati dai confratelli dello Spirito Santo uscirono dalla città e salirono alla chiesa del monte dei cappuccini, ove i due sindaci e i dieci decurioni accostaronsi alla mensa eucaristica: ivi soffermatisi alcun tempo per implorare la divina misericordia, si condussero successivamente alle chiese di N. D. degli Angeli, de' ss. Martiri, di s. Dalmazzo, della Consolata, del Corpus Domini, e finalmente al maggior tempio, dove offerirono un voto d'argento all'arcivescovo Antonio Provana, che li ricevette con tutta la pompa pontificale. Terminata questa funzione i sindaci e i decurioni rientrarono nel civico palazzo a rogarvi l'atto autentico e solenne del loro divoto pellegrinaggio.

Mentre la peste faceva orribile strage dei torinesi, le rustiche case e le signorili ville del territorio di questa città erano barbaramente saccheggiate non solamente dai francesi nemici, ma eziandio dagli alleati spagnuoli, i quali agli stessi appestati, schernendoli, toglievano con inaudita barbarie i materassi e le coltri, che trasportati altrove servivano a far rincrudire viem maggiormente il pestifero morbo, il quale non solo imperversò in Torino, ma ben anche in molte altre città e terre subalpine, che ne furono quasi intieramente spopolate, cioè in Acqui, Alessandria, Aosta, Biella, Busca, Carmagnola, Ceva, Chieri, Dronero, Saluzzo, Moncalvo, Racconigi, i borghi di Cuorgnè, di Garessio e di Villafranca di Piemonte. Come i suddetti luoghi e le valli superiori a Pinerolo furono nella stessa infausta epoca orribilmente travagliate dal doppio flagello della peste e della fame, fu da noi esposto nella Storia generale del Piemonte.

A tante e sì fiere calamità da cui fu travagliata Torino in quel tempo sciaguratissimo, si aggiunsero i perniciosi effetti ch'ella ebbe a soffrire della guerra che il suo Duca giudicò di dover continuare. I francesi tentavano allora tutte le vie per soccorrere Casale, occupata dagli spagnuoli, e avevano in lor potere Susa, Pinerolo, Saluzzo con molte altre minori piazze, standovi come in paese conquistato, e tirandone enormi contribuzioni. Dall'altro canto gli austriaci si tedeschi impe-. riali, che spagnuoli, e le genti stesse del duca di Savoja vivevano nelle altre provincie non altrimenti che se fossero stati nemici, rovinando case e campagne per proprio comodo e piacere. Or mentre usavasi ogni sforzo a piè delle alpi per apportare e contendere il soccorso a Casale, questa città, posta negli estremi, si arrese; il presidio si ritrasse nella cittadella, e si stabilì una tregua, durante la quale praticaronsi molti negoziati fieramente contrastati, che, nel punto di una battaglia campale, furono finalmente col trattato di Ratisbona coronati.

Comecchè lo spirito e lo scopo di quel trattato fosse lo smembramento dell'intiera Italia da' francesi, nulladimeno il divisamento del gallico ministero era quello di conservarsi, coll'occupazione di Pinerolo, una porta schiusa in quelle contrade; e fingendo immaginarii timori di una novella rot

tura per parte dell'Austria, ottenne, col mezzo di un nuovo patto con Vittorio Amedeo, che quella piazza, cui l'articolo 21 dell'accordo voleva resa nello stesso giorno in che gl'imperiali sgombrerebbero da Mantova, rimarrebbe ancora sei mesi nelle mani de' galli; e con una forzala convenzione, fatta cinque mesi dappoi (1631) a s. Germano, essa venne cangiata in perpetua proprietà, insieme col suo territorio e coi borghi sulla sinistra sponda del Chisone, attigua a Fenestrelle, mediante la somma di cinquecento mila scudi chela Francia promise di pagare per lo duca alla casa di Mantova. In quanta soggezione, per tale accordo, abbia dovuto trovarsi la città di Torino, ciascuno sel vede.

Le ragioni, colle quali il gallico governo procurò di giustificare quella infrazione del trattato presso gl'italici potentati, erano che, dando così un libero adito in Italia alle armi francesi, venivano innalzati limiti all'ambizione dell'Austria, e si otterrebbe l'indipendenza della nostra penisola, e segnatamente delle regioni, di cui Torino è capitale. Fatto è che Vittorio Amedeo dovette far compra della libertà dei suoi dominii, oppressi da' debiti, con eccessive contribuzioni, col cedere Pinerolo, e col sacrificare al bene della pace il privilegio della difesa delle alpi, che aveva costato le più fiorenti oltramontane provincie al suo genitore; perdere così ogni ascendente sopra l'Italia, e chiudersi la strada a nuove conquiste in quelle sponde; danno assai grave, debolmente compensato dall'acquisto del distretto d'Alba, che il cardinal ministro fe' aggiungere alle settanta terre, cui il trattato di Ratisbona concedeva al Duca per la dote di Bianca di Monferrato.

L'amore della pace ed una rigorosa economia, che caratterizzavano Vittorio, non l'acceccarono sui disegni delle corti di Parigi e di Madrid, che ne' frequenti accordi aveva, vivo il padre, potuto penetrare. Antiveggendo abbastanza che l'intralciamento del trattato di Ratisbona non indugerebbe a somministrar cagione di nuove discordanze, in cui non poteva non essere avvolto, si apprestò a qual si fosse avvenimento e la città di Torino fu testimone dei solleciti apparecchi guerreschi da lui fatti con senno proporzionato al bisogno. Si fu allora ch'egli accreble notevolmente il no

vero delle sue schiere, dettò parecchi regolamenti per fabbricar la polvere, e divisò di fondare una scuola nella cit tadella di Torino per la pratica istruzione degli artiglieri.

Vittorio Amedeo era in tali disposizioni affaccendato, allorchè avvenne quanto aveva antiveduto. La irrequieta am bizione di Richelieu, sotto colore di difendere Italia contro il giogo della casa d'Austria, a cui la famosa battaglia vinta contro gli svedesi nel 1634 a Vertlinga, sembrava dover far acquistare una grande prepotenza in Europa; e infatti perchè il suo ministero divenisse necessario al suo Re in mezzo alle congiure che lo accerchiavano, lavorava nel maneggio di nuove guerre a stringere una lega italiana, se non vantaggiosa agli interessi d'Italia, nulla disposta a favor della Francia, utile certamente alla sua corte. Il Duca vivamente stretto, stava in forse sul sacrificare alle ambiziose mire di quel ministro la felicità, che i suoi dominii sperar non potevano fuorchè nel proseguimento della pace che aveva a così alto prezzo acquistata. Quegli, al progetto di neutralità profertogli dal Duca, rispose con orgoglio: o lega, o guerra; ed otto mila fanti e due mila cavalli mossero immantinente sui con✩ fini del Delfinato, minacciando d'invadere da Pinerolo l'agrodi Torino in caso di più lunga irresoluzione. Il terribile quadro delle sventure che questa contrada aveva da un secolo sofferte, la fresca sperienza della poca fiducia che dovea porsi nel soccorso degli austriaci, la debole certezza di giungere a fronteggiare coi soli suoi mezzi così prepotenti forze, costrinsero finalmente Vittorio Amedeo ad aderire, malgrado sè, ad una lega di tre anni: Luigi XIII, cognato di lui, il nominò allora generalissimo dell'esercito collegato in Italia; titolo più onorevole che effettivo.

Vittorio Amedeo, il cui pensiero era quello di allontanare a tutta possa il teatro della guerra dal torinese distretto mise in campo il disegno di recarla primieramente nel cuore del milanese, espugnando a viva forza Novara, il solo fievole ostacolo che ne poneva a schermo la città capitale; ma il generale francese, colla mira di agevolare al duca di Parma la riunione di quattro mila fanti e di due mila cavalli, che egli somministrar doveva all'esercito collegato, preferì l'assalto della importante piazza di Valenza. Il duca di Savoja

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