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torno a lui, essere vergogna incomportabile, che avendo eglino cooperato alle vittorie de' Romani con fanti e cavalieri, non fossero ancor ammessi a' privilegi de' fanti e cavalieri romani; essere scarsissima mercede a tanti loro servigi il semplice nome di socii, e il gius italico omai spregiato dagli italiani, perchè troppo comuni; essere omai tempo di ottenere il nome e la prerogativa di cittadini romani tanto nelle divisioni dei campi, nella distribuzione dei cereali, quanto principalmente nelle giudicature, che a' romani cavalieri si concedevano. Troppo ragionevoli parvero queste ragioni, non solo ai Marsi, ma ben anche a parecchi altri popoli d'Italia, che da' Romani erano altresì chiamati socii; anzi nou mancarono ad essi in Roma alcuni partigiani, tra i quali Livio Druso tribuno della plebe, e il console Fulvio Flacco: subito fecero in ciò causa comune con i Marsi ed i Sanniti, anche i Peligni, gli Umbri, i Piceni ed in fine quasi tutti i popoli, dal fiume Liri infino al seno Adriatico. Non v'ha dubbio che tutti costoro abbiano in quell'occasione procurato con preghiere, e poi con minaccie la popolazione di Torino ad unirsi con loro, perocchè questa città era già divenuta celebre pel suo valore dimostrato in tante occasioni, e singolarmente nella gloriosa resistenza che avea fatto al gran conquistatore cartaginese ; ma Torino fermamente ricusò di accondiscendere alle vive istanze dei sollevati, non tanto perchè era dai Romani trattata con benigni riguardi, quanto perchè non volea macchiarsi di slealtà dopo aver giurato fede alla repubblica di Roma. Quanto senno e virtù abbia dimostrato allora la nostra città, drassi chiaramente dal funesto esito di quella lotta.

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Il romano senato primamente rimase attonito dell'audacia di quei sollevati che altamente chiedevano la partecipazione del romano impero; e ben lontano dal voler accondiscendere a moltiplicar il numero dei giudici, risolvette di diminuirlo, e pubblicò un decreto, in forza del quale nessun romano cavaliere avesse autorità giudiziaria ne' tribunali, riserbandola precisamente all'ordine senatorio. Se il rifiuto ch'esso fece alle prime domande degli ambasciatori, spediti da Silone Popedio a nome di tutti i popoli che pretendevano alla romana cittadinanza, esacerbò quasi tutti gl'italiani,

questo nuovo decreto irritò tutti i romani cavalieri. Unitisi dunque tutti gli Italici che dai Romani eran chiamati socii, fecero anch'essi un'altra Roma in Corfinio: quivi stabilirono un senato, la sedia del loro impero; quivi crearono, ad emulazione di Roma, due consoli; elessero, tra i più notabili di loro, cinque cento senatori; e fecero parecchi pretori, i quali furono in parte mandati al governo di varie città, e in parte stabiliti in Corfinio a render ragione nelle occorrenze delle persone e delle famiglie. Principio dell'orrenda guerra fu la strage che si fece in Ascoli di tutti quanti vi si trovarono cittadini romani, e del proconsole Q. Servilio, il quale senza riflettere che le minacce e le. bravate contro quelli che già hanno da sè cacciato ogni timore e rispetto verso i comandanti, sono vane, od anche nocevoli a chi le usa, in veće di calmarli con modi dolci é mansueti, inasprì ed accese gli animi de' sollevati con dutissime riprensioni. Allora si vide l'Italia, divisa tutta in due repubbliche, venire all'armi ed alle offese, non për la possessione di una provincia, ma per l'intero dominio di una grandissima parte del mondo. Perocchè è cosa certa, che se la confederazione degl'Italici fosse prevaluta alle forze di Roma, queglino stessi avrebbero preteso di riformar lo stato a loro modo, come si fa nelle lotte civili; ed avrebbero cercato o di stabilire la sede in Corfinio, o cacciando via gli antichi cittadini, almeno i principali, impadronirsi di Roma e di tutto l'imperio di quella. Nè sarebbe stata opera malagevole il costringer colla forza le provincie straniere, soggette a' Romani, a passare sotto la signoria de' Marsi e de' Sanniti, capi della fazione italica; conciossiachè le stesse forze, con le quali essi avrebbono superato i Romani, accresciute ancora dalla maggiore esperienza, e dalla riputazione che di sua natura nasce dal rimaner superiore di un potentissimo partito, e d'una ostinata ed aspra guerra, sarebbero stati più che bastanti a tenere gli altri popoli nell'obbedienza. Ma sebbene le forze della lega paressero da principio maggiori che non quelle di Roma, pel numero e per la ferocia di quei popoli non ancor ammolliti dalle ricchezze, e dalla potenza, come i Romani, avvenne tuttavia in questa orribil guerra ciò che succede in tutte le ribel

lioni e lotte civili, nelle quali a lungo andare prevale quel partito, che ha le presunzioni del diritto in favor suo, e che si trova in possesso della pubblica e sovrana autorità; potendo per infiniti accidenti in mille maniere ristorar le sue forze, e dividere e indebolir quelle de' congiurati. I Torinesi, ed anche i Toscani ebbero in questa rivoluzione la miglior sorte, perchè non credettero, nè discostarsi dalla fedeltà giurata a Roma, nè di avventurare il certo che avevano per l'incerto che dagli altri violentemente si cercava. Vero è che durante quella sanguinosissima guerra si ebbe in Roma il più grande spavento; perocchè è costume della fortuna di favorire da principio la temerità; ma a tanti a così gravi disordini, e all'imminente pericolo due ripari trovò il romano senato; l'uno di dar le armi a' liberti, estremo rimedio ne' mali estremi; l'altro di promulgare una legge, in virtù della quale tutte le italiane città, che stessero salde nella fede, e dessero ajuto a Roma contro i ribelli, godessero i diritti della civiltà romana. Questa legge, data dal console Lucio Cesare, oltre che rinforzò di molto il partito de' Romani per l'aggiunta che vi si fece di molte genti, le quali abbracciarono poi come proprio il partito di quella repubblica, fu ancora un valido spediente per adescar una parte di sollevati ad affrettarsi di trattare privatamente di pace coi Romani, con la speranza di essere ricevuti nella slesso grado de' Torinesi, de' Latini e de' 'Toscani. Ed in vero da quel tempo in poi la lega italica si andò scemando di giorno in giorno; perchè ciascuno de' popoli mandò a parte suoi ambasciatori per trattare delle condizioni della

resa.

Si rendelte poi anche benemerita la città di Torino verso di Roma in occasione della congiura di Catilina; discoperto questi dalle proprie lettere, e perseguito da un console con la voce, dall'altro col ferro, credendo di trovare nella taurina regione la porta aperta per irsene al di là delle alpi, dove gli Allobrogi per il mal governo de' Romani, tumultuavano contro di loro, trovossi rinserrato alle spalle dalle truppe del console Antonio, e a fronte da Cajo Mureno prefetto della nostra contrada con l'esercito raccolto nella Cisalpina; sicchè il ribelle co' suoi seguaci non potendo nè

passare avanti, nè tornar indietro, nè sussistere in campo, nè sperar perdono, per cancellar l'infamia del delitto, ec-1 citò i suoi a combattere disperatamente; ond'eglino tutti caddero dove pugnarono. Catilina nella concione che fece a' suoi tra quelle angustie, parlò, come riferisce Sallusto nei seguenti termini: exercitus hostium duo, unus ab Urbe, aller a Gallia obstitit; diutius in iis locis, si maxime animus ferat, fromenti atque aliarum rerum egestas prohibel.

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Questo avvenimento fece viemmeglio conoscere al romano senato, che nodriva alti pensieri, di quanta importanza fosse la città di Torino. Onde nell'elezione de' reggitori delle provincie consolari, la Torinese provincia era sommamente ambita, per l'opportunità di nutrire numerose soldatesche a piè delle alpi, e di assicurarsi questo passaggio per estendere i loro disegni nella Gallia transalpina, nella provincia Narbonese, nella Germania, e assai più oltre. Quindi è, che Giulio Cesare, quando la congiura di Catilina venne discoperta, vedendo come il senato diveniva sempre più sospet→ toso, volse tostamente lo sguardo ai taurini monti come propugnacoli della sua sicurezza, e per potervi giungere sì procurò il consolato. A questo fine cominciò stringersi in ámicizia con Crasso, e in affinità con Lucio Pisone e Pompeo Magno, facendosi ad un tempo quello suocero, prima suoi fieri antagonisti: contro voglia del senato fu fatto con→ sole, e dal popolo ottenne il tanto desiderato comando della Gallia cisalpina, ed in conseguenza della torinese contrada, con tre legioni per cinque anni. Il che quantunque a' sénatori grandemente spiacesse vedendo crescere la potenza di un uomo così ambizioso ed audace; tuttavia giudicò meglio di guadagnarsi la benevolenza di quel sommo uomo, emulando il favore del popolo; onde al comando della cisalpina gli aggiunse quello della transalpina con un'altra legione.

Cesare allora se ne parti tostamente da Roma (an. 47 av. C.); prese tre legioni appo i Veneti, e due altre nell'Italia superiore; traversò con esse il Piemonte, e per la consueta vià di Annibale, ossia per le valli di Pinerolo, corse diritta mente ad Ocelum sotto il collo di Fenestrelle. Su questa vetta, e in sulla cresta dei circostanti gioghi trovò i Liguri-Galli

non immemori dell'antica alleanza che agli Elvezii li stringeva; erano essi i Caturigi, così detti da Chorges loro capitale nel Delfinato, i Garoceli, cioè i vallegiani di Lanzo e dell'alta Moriana, ed i Centroni, cioè gli abitanti della Tarantasia, così denominati da Centron, che era la loro città capitale, distante quattro miglia da Aisme. Queste alpine genti si opposero negli angusti passaggi, e ne' profondi val loni a quel gran capitano, e durante sette giorni gliene feeero ritardare la marcia.

Volendo poi egli attraversare la valle dei Salassi, dovette lasciar nelle loro mani la cassa militare, e gli stessi contrasti incontrarono poscia i romani generali, che tentarono il varco delle alpi; perocchè gli abitatori di esse facean tutti gli sforzi a compensarsi dei gravi danni loro arrecati per gli assalimenti e le depredazioni di quei terribili conquistatori. Dione Cassio lib. 55.

A malgrado di tante difficoltà, Cesare potè recarsi oltre le alpi, passò a Geneva, fe' rompere un ponte sul Rodano per impedirne il passaggio agli Elvezii, che sospinti dalla fame, lasciato i loro alpestri tugurii, s'incamminarono verso la provincia Narbonese nella speranza di potervi provvedere ai bisogni della vita: tenendo a bada gli ambasciatori degli Elvezii che vennero a chiamargli pace, fe' innalzare un muro dal lago di Geneva sino al monte Jura, che divide gli Allobrogi dagli Elvezii, lasciò a Labieno la custodia di quei ripari, e scese di bel nuovo nella Subalpina; notiam di passaggio che, secondo Plinio lib. 46, cap. 41, la Subalpina è quella parte della Cisalpina che giace a piè delle nostre alpi, e di cui ab antico è capitale Torino; dopo che Cesare ingrossò qui il suo esercito con la cavalleria degli ausiliarii, risalì i monti, non senza contrasti, colle raccolte squadre; alle quali aggiunse poi le due legioni transalpine, di modo che si trovò alla testa di sette legioni e di numerosa valleria: apparato guerresco assai maggior del bisogno contro ai miseri Elvezii, ma da lui destinato ad imprese più alte ́ed ambiziose; perocchè, al passaggio dell'Arari, or detto Sonna, tagliata in pezzi una parte di quegli affamati Elvezii, che aspettavano indarno la romana clemenza, perseguitò l'altra parte sin dentro ai paesi de' Sequani e degli Edui',

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