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il principe Tommaso si arrendesse prigioniero di guerra; ma quei de' principi tanto calorosamente si contrapposero, che questa condizione non si potè ottenere. Lo stesso Harcourt contribuì alla conchiusione, sapendo che a quei dì il Mazzarino doveva arrivare per intromettersi nel negozio: temeva che il prete togliesse al guerriero la gloria dell'aver compito l'opera faticosa. Ai 20 di settembre 1640 furono accordati i capitoli della resa: che il principe consegnerebbe la città di Torino al re di Francia per le mani del conte d'Harcourt, dando il Re fede di rimetterla al duca sotto la reggenza di Madama Cristina: che la consegna seguirebbe ai 22 di settembre, restando libero al principe l'andarsene ove più gli piacesse, ed agli spagnuoli il trasferirsi al campo del marchese di Leganez oltre il Po; che alle infanti sorelle del duca rimarrebbe l'arbitrio di uscirne o di restarvi; che chi volesse uscir da Torino e seguitare il principe coi beni e colle masserizie, si avesse due mesi per farlo; che si restituissero i beni confiscati ed i prigioni di guerra, nè alcuno potesse esser ricerco o molestato per aver seguito la parte contraria; che la città conserverebbe i suoi privilegi e la giustizia vi si amministrerebbe da' suoi magistrati a nome del duca: inoltre fu accordata una tregua di alquante settimane tra i francesi, Madama Reale ed i principi per dar tempo ai trattati, dai quali si sperava una uníversale concordia.

Partiva il principe Tommaso dalla mesta città: con lui partirono le nipoti che, non udite le proferte di conveniente trattamento fatte loro dall'Harcourt, elessero di seguitarlo. Lo accompagnarono tutta la nobiltà piemontese ch'era rimasta in Torino, i suoi soldati, non pochi torinesi d'onorata condizione, o per amore di lui, o perchè non si curassero o non si fidassero dei perdoni. In sull'uscire l'Harcourt si fece avanti al principe, onorevolmente accogliendolo e del suo valore lodandolo. Turena e Clermont-Tonnerre ancor essi con espressioni di singolarissima stima l'onorarono. Ri-tirossi a Rivoli, poscia ad Ivrea, dove aveva eletto di fare la sua stanza.

I torinesi temendo dell'Harcourt, che avevano sperimentato colanto terribile nelle armi, se ne stavano con l'animo

molto sollevato; ma vedutolo dappoi di età fiorita, di benigno aspetto e di dolci maniere, si racconfortarono. Così finì l'assedio di Torino, che durò quattro mesi e quindici giorni, con fazioni tanto memorabili, e con tanta pazienza e valore sì degli assedianti, che degli assediati.

Stava il mondo in grandissima aspettazione su quanto, dopo così nobile vittoria, fosse per farsi la Francia. La natura inesorabile di Richelieu dava a temere sul destino stesso di Madama Reale e del figlio: ma ella, che passava giorni increscevoli a Ciamberì, sommamente allegrossi quando seppe che Torino era del tutto libera dagli spagnuoli, e che il principe suo cognato erasi dopo la tregua condotto ad Ivrea. Impaziente di rientrare nella capitale, ne chiese l'aggradimento al re suo fratello, il quale tostamente le rispose che molto volentieri acconsentiva al suo desiderio, facendola certa che l'Harcourt le renderebbe tutti gli onori possibili, e il Du-Plessis riceverebbe in ogni giorno gli ordini di lei.

La duchessa reggente entrava solennemente in Torino addì 19 di novembre. Gli archi trionfali, gli applausi, i discorsi ed i versi adulatorii, secondo il solito, non mancarono. Il popolo, che poco innanzi avea gridato viva Tommaso, ora gridava viva Cristina. Ammaestramento per gli ambiziosi, che del popolo si servono come sgabello per salire; ammaestramento, che non fu il primo nè l'ultimo, e noi ne abbiamo veduti, e chi vivrà ne vedrà, e pur sempre inutilmente e per chi soffre e per chi fa soffrire.

Da principio fu benigno il procedere di Madama Cristina: ella mirava a riordinare le cose tanto turbate dalla guerra. In questa capitale non si parlava che di clemenza e di dimenticanza. Poi, come sempre accade, s'incominciò ad insorgere. Predicavasi pur sempre la clemenza della duchessa reggente, cui davasi il nome di pietosa madre dei sudditi ; ma i magistrati infierivano, gli adulatori, trasportati dall'impeto della vendetta, dicevano che Madama nol poteva impedire: la vendetta chiamavano giustizia, e il mancar di fede alla capitolazione, necessità. Si licenziò il senato del principe, ed un nuovo se ne creò: questo annullò tutti gli atti del precedente, come di magistrato illegittimo, il che produsse gran confusione di persone e d'interessi; poi procedè aspra

mente contro gli amici dei principi e di Spagna, dal che nacque terrore: i torinesi non sapevano più che farsi, perchè vedevano di non cambiar condizione col cambiar di governo, e quelli che prima avevano pianto, ora perseguitavano, e quelli che avevano perseguitato, ora piangevano: la comune patria intanto desolata, atterrita, sanguinosa, non poteva risorgere. Non a quiete si andava, meno a libertà, ma solamente si trattava se il duca dovesse chiamarsi Carlo Emanuele o Maurizio. A queste strette capitano i popoli che si battono pei nomi e non per le cose.

Le promesse fatte dal Re a sua sorella, quando questi le diede la facoltà di ritornare a Torino erano illusorie. L'allegrezza che ebbe Madama Cristina di vedersi restituita a Torino, fu troppo presto turbata da un grave insulto che le fu fatto dal cardinale di Richelieu, di cui l'Harcourt dovette essere l'istrumento, malgrado suo, per farvi cooperare un altro generale francese che parimente si trovava in questa capitale. Il Richelieu sapeva o presumeva di sapere che il conte Filippo d'Agliè era stato più degli altri costante a dissuadere la reggente, quando si trovò con essa in Grenoble, per compiacere il Re o piuttosto il Richelieu delle sue domande. Vendicativo, come egli era e intollerante di rifiuti, a pena si era astenuto dal far arrestare il conte, prima che con la duchessa ei partisse da Grenoble; ma non depose il concepito sdegno, e tosto che Madama Reale con la sua corte si fu restituita a Torino, mandò ordine all'Harcourt di fare arrestare il conte Filippo, e mandarlo con buona scorta in Francia.

L'Harcourt che non ardiva di trasgredire gli ordini del prepotente e fiero ministro, dovette prestar l'opera ad una violenza di nuovo esempio. Costrinse il Du-Plessis, governatore di questa città, a dare in casa sua una sontuosa cena, e ad invitarvi con altri gentiluomini e gran signori della corte il conte d'Agliè, il quale nell'uscire di là fu dal Souvigny, governatore di Cherasco, che anche in Torino si trovava, arrestato e condotto immantinente nella cittadella che ancor si teneva dai francesi, e poi trasportato in Francia, e ritenuto prigione nel castello di Vincennes, presso Parigi. I conte d'Agliè era il solo prudente consigliere di Madama

Reale, che osava predicar la moderazione e l'obblio del passato. La violenza che gli venne fatta contristò tutti i buoni, ed offese altamente la duchessa, che nulla omise affinchè fosse posto in libertà: tuttavia l'illustre prigioniero non fu rilasciato se non dopo la morte dell'iniquo Richelieu.

A malgrado della tregua che doveva durar quattro mesi, ricominciarono le ostilità. La resa di Cuneo e la demolizione del castel di Revello furono le più importanti e le più inaspettate operazioni di quella campagna (1641). Cuneo si era data al principe Maurizio, inclinando piuttosto alla divozione di un principe del sangue, che a quella di Madama Cristina, nata francese, e che si supponeva dai francesi governata. Quella piazza fu cinta di stretto assedio, e dovette arrendersi all'Harcourt. Revello si teneva anche dal partito de' principi, e fu demolito perchè così volle l'altiero ministro di Francia.

A quei giorni il malcontento di Madama Reale era al suo colmo, scorgendo ella come più non teneva che un'ombra d'autorità, e come il suo figlio veniva spogliato dagli stessi francesi, i quali si dichiaravano suoi protettori. I di lei cognati omai fremevano, sebben troppo tardi, allo spaventevole aspetto dello smembramento del Piemonte, divenuto un teatro di stragi e di orrori, dove il sangue dei congiunti scorreva per la mano stessa dei congiunti: vedevano con gran dispetto che il Siruela non meno li assecondava di quanto avesse fatto il Leganez, e che la Spagna pensando unicamente a conseguire il predominio in Italia, poco o nulla si curava dei loro interessi: si accorgevano che i mali che attrassero sulla loro patria, non avrebbero ad essi procurato alcun reale vantaggio; e conoscevano infine che un tale ordine di cose non poteva non arrecare l'intiera rovina della loro famiglia e del loro paese. Per tutte queste considerazioni si piegarono a riconciliarsi colla reggente, accettando le offerte che da lei più volte erano state fatte.

Se non che a dar compimento e mettere in esecuzione l'accordo che fu inteso tra la duchessa e i due principi cognati incontraronsi non poche, nè lievi difficoltà. Dovevasi soddisfare a varie pretensioni del principe Maurizio, e a quelle del fratello principe Tommaso; ma più ancor premeva

il riconciliarli ambedue con la Francia. Nè questo potevasi ottenere senza tirarsi addosso la Spagna con evidente danno e pericolo. I due principi avevano sotto di loro truppe spagnuole, che potevano opporsi alle risoluzioni svantaggiose alla corte di Madrid, che ignorar non poteva i trattati con Francia. Arrigo De La Tour, duca di Buglione, che era stato mandato al comando supremo delle truppe francesi in Piemonte e in Lombardia, potea dare qualche ombra non solo alla reggente, ma ai principi cognati, dacchè si sospettava ch'egli essendo altre volte stato compartecipe della cospirazione del duca d'Orleans con la Spagna, fosse di nuovo in qualche intelligenza con quella corte. Per buona sorte dei principi di Savoja il duca di Buglione fu in questi frangenti arrestato a Casale per ordine del Re, e mandato prigione a Pietra Incisa. La pace particolare tra Madama Reale ed i suoi cognati, per la cui conclusione si erano consumati parecchi mesi, venne finalmente sottoscritta in Torino addì 14 di luglio del 1641: i negoziatori furono il nunzio del Papa, che non aveva mai cessato d'impiegare a questo scopo i suoi buoni uffizii, ed il padre Gioanni da Moncalieri, egregio cappuccino, fornito di molta saggezza, ch'era già stato generale dell'ordine suo. In vigore degli articoli dopo lungo.contrasto convenuti, il principe Maurizio, ch'era bensì cardinale, ma non vincolato dagli ordini sacri, rinunciava il cardinalato in mano del nunzio apostolico residente a Torino, e dovea sposare la nipote Luigia di Savoja, sorella del duca pupillo Carlo Emanuele II, delle cui preclarissime doti si ha un bell'elogio del Belegno, ambasciatore di Venezia. Il principe Maurizio aveva allora quarantanove anni. Un desiderio se non del tutto lodevole, scusabile almeno e naturale di aver moglie, e la speranza di lasciar la posterità sua sul trono, il che dipendeva dalla vita di un sol fanciullo di sanità e complessione assai debole, lo determinò a passare dalle dignità ecclesiastiche allo stato conjugale, con poca soddisfazione della sposa, che si riguardò come vittima della politica materna, dandolesi per marito un cardinale suo proprio zio, di oltre trent'anni più di lei attempato. Per altro riguardo poco potea piacere quel maritaggio al principe Tommaso che per esso vedeva sè ed i suoi figliuoli allontanati dalla successione even

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