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tuale al trono, quando il suo fratello maggiore prendeva moglie. Vi si accomodò tuttavia, almeno nelle apparenze, con la reggente; e lasciata l'alleanza di Spagna, prese in compagnia del duca di Longueville il comando delle genti francesi in Lombardia.

Erasi aperto nel 1645 il congresso di Munster per trattare una pace generale tra la casa d'Austria, la Francia e le minori potenze loro alleate. La corte di Torino vi mandò per ambasciatore il marchese di s. Maurizio, nobilissimo savojardo, e, piuttosto come consigliere che come collega, il presidente Bellezia, uomo avanzato negl'impieghi civili per i suoi talenti e la sua dottrina.

LI.

Si scuopre in Torino un'orribile congiura contro la Reggente e il
Duca suo figlio il principal cospiratore è un monaco: sebbene la
corte di Roma si ostini a non consentire che soggiaccia alla me-
ritata pena, egli tuttavia insieme con un altro complice è commesso
al carnefice.

Il congresso di Munster tendeva al suo fine; ma prima che fosse decisivamente conchiuso, sottoscritto e pubblicato nell'ottobre del 1648, un altro troppo diverso affare diede alla corte di Torino un fastidioso travaglio. I principi zii del duca non erano che nell'apparenza pacificati con la reggente Cristina, nè loro mancavano in questa capitale partigiani fervorosi. I più ardenti e più audaci erano quelli, come ben può supporsi, i quali aveano da chi di presente governava ricevuto qualche danno, qualche disgusto o rifiuto. Fra costoro si tramò un'orribile congiura per levar di vita il duca pupillo e la madre di lui tutrice. L'autor principale di quella. cospirazione si trovò essere un frate entusiastico e visionario, che facea pubblicamente professione di astrologia, e segretamente di fattucchierie.

Chiamavasi costui D. Bernardo Gandolfo, che di agostiniano scalzo erasi fatto monaco tra i fugliesi, detti comunemente di s. Bernardo. In un almanacco da lui pubblicato per l'anno 1648, aveva egli inserito di capo suo terribili predizioni, disgrazie, punizioni di ministri, disastri d'ogni maniera,

e

con termini meno aperti anche la morte del duca, che in quell'anno appunto compiendo il quartodecimo dell'età sua, uscir doveva di minorità e di tutela. Inteso poi che si facean ricerche fiscali per causa di quelle predizioni, sen fuggì da Torino, e non avendo potuto passare nel genovesato perchè i comandanti spagnuoli, che erano in quelle frontiere, gli ricusavano il passaporto, si rifugiò a Ceva nel convento degli agostiniani. Il governatore avvisatone, il fece arrestare, esaminare, e ne diè parte a Torino. Lo sciagurato monaco, nella speranza di trovar perdono de' delitti suoi, si dichiarò disposto a rivelare il secreto della cospirazione, e manifestarne i complici. Uno di questi, chiamato Bernardo Sillano, era stato senatore nel torinese senato, ma partigiano ardentissimo del principe Tommaso, e private perciò dalla duchessa del suo impiego, era stato dal principe eletto a giudice in alcune città da lui dipendenti; e nel tempo che questo principe ebbe Torino, il Sillano ebbe l'incarico di far ricerche e processi contro coloro che gli si erano mostrati contrarii nel trattato di pace conchiuso tra la reggente e i principi. Questi suoi protettori insistettero perchè egli fosse ristabilito nella sua prima carica di senatore. La duchessa ricusò di farlo, e solo acconsentì ch'ei potesse vivere in Torino e portare titolo di senatore, senza funzione e senza stipendio. Malcontento più che mai, troppo era facile che un uomo del suo carattere macchinasse orrori contro il governo. L'altro, che il monaco nominò, chiamavasi Gian Antonio Gioja. Era costui stato cameriere della duchessa regnante; ma non avendo voluto seguitarla e servirla durante la guerra civile, erasi gettato nel partito del principe. Rimasto senza stipendio, e ridotto poco meno che alla mendicità, era uomo da abbracciare ogni più reo e disperato partito. Arrestati, messi in carcere, esaminati severamente amendue, Sillano mori in prigione prima che fosse pronunziata contro di lui la sentenza; il Gioja fu condannato e messo a morte.

Ma per fare il processo al monaco Gandolfo conforme al suo delitto, si ebbero ad incontrare difficoltà grandissime, stante l'esenzione sua, come religioso, dal foro secolare. 11 nunzio pontificio, a cui, conforme il sistema d'allora, appar-teneva la cognizione, nominò un delegato per istruire il pro

cesso, o per assistere alle procedure de' giudici secolari. Se non che il reo frate, che era maestro d'intrighi, avea trovato patrocinio ed appoggi tali, che il nunzio si vide costretto di rivocare la facoltà del suo delegato, nè volle delegare altra persona, fintantochè non gli venisse nuovo ordine dal Papa. Madama Reale spedì a Roma un suo elemosiniere, abate Vacchieri, per ottener la facoltà che si credeva necessaria. Nulla avendo potuto ottenere il Vacchieri, si mandò per lo stesso oggetto il vescovo di Moriana Paolo Millet di Chales, prelato per nascita nobilissimo, e per altri riguardi molto stimabile; ma neppure un così distinto personaggio potè ottenere ciò che la sua corte chiedeva dal sommo Pontefice. In Roma correva la falsa voce che tutto quel fatto fosse calunnia immaginata in odio de' principi. Pretendevasi dalla romana curia, che nel formare il processo al monaco Gandolfo, da cui dipendeva eziandio quello del Gioja, nè il giudice secolare, nè il fiscale, nè il segretario o scrivano, nè il custode del carcere, dove il monaco era ditenuto, fossero sudditi del duca di Savoja, ma tutti forestieri. Ritornato perciò a Torino senza conclusione il vescovo Millet, si stimò opportuno d'andar avanti non ostante il rifiuto di Roma. Il senato, supremo tribunale, condannò a morte i due rei. L'infame frate fu non meno che il Gioja strangolato in prigione, e poi sospeso pubblicamente alle forche.

LII.

Cessa la reggenza per uno stratagemma di Madama Cristina.
Com'ella fa inaugurare in Torino il nuovo regno
del Duca suo figlio.

Sebbene le circostanze dell'orribile trama dianzi indicata fossero tali da non doversene spaventare, tuttavia la reggente ne aveva avuto le più vive apprensioni. Per aumento d'inquietudine vedeva ella che il suo figliuolo era di gracilissima complessione, e che trovandosi ben presso ai quattordici anni, cioè al termine della sua minor età, avrebbe bisogno di curatore: di ciò era molto afflitta, perchè sapeva che i suoi cognati agognavano di bel nuovo a impadronirsi delle redini dello stato. Confidò i suoi sospetti e i suoi timori a

quel padre Giovanni da Moncalieri, cappuccino di rara sagacità, del quale abbiam parlato qui sopra, ed eziandio al marchese di Pianezza. L'avviso di questi due accorti personaggi fu di prevenire gl'intrighi e le opposizioni e le scosse, non già con la forza, ma sibbene colla scaltrezza.

La reggente adunque profittò dell'assenza del cognato per ripigliare il governo d'Ivrea che era stato ceduto a questo principe, durante la minor età del giovine duca. Sotto colore di passare in luoghi più freschi l'estate, erasi ella da Torino trasferita nel castello di Rivoli: andò quindi al castello d'Agliè sotto pretesto di un divertimento di caccia, a cui avevala invitata il conte feudatario di quel luogo, che era il suo favorito ministro, e facendo intanto muovere alcune truppe nel Canavese, addì 16 di giugno del 1648 scrisse al conte di Campione governatore d'Ivrea che il duca suo figliuolo desiderando di vedere quella città, un corpo delle sue guardie lo precederebbe. Il governatore conobbe il rischioso frangente in cui per ciò ritrovossi, ed avrebbe forse ricusato di ricevere la corte, se gli abitanti, di molti dei quali già la duchessa erasi guadagnato l'animo, non avessero mostrato in pubblico una siffatta premura di vederla, che gli parve una minaccia d'insurrezione: così mentre il signor di Campione stava ancora indeciso sulla deliberazione che avesse a prendere, vi arrivarono le guardie del corpo seguite da alcune altre truppe: il giovine duca accompagnato dalla sua genitrice le seguì dappresso, e fu accolto dagli applausi dei cittadini, di cui quelli che erano più favorevoli alla reggente ed al suo figlio, cominciarono dire, che per antico privilegio quando il sovrano era in Ivrea, gli abitanti dovevano aver la custodia di una porta, e l'ebbero di fatto, senza che il governatore abbia osato di ciò impedire. Drappelli di soldati, che vestiti da contadini eransi appressati ad Ivrea, come per curiosità, vi si introdussero allora, e sopraggiunti da altri loro commilitoni, occuparono tosto le altre porte, e le più importanti positure della piazza. Il Duca vedendo così ben disposte le cose in suo favore, annunziò di volervi passare la notte, e nella domane, ch'era il 20 di giugno, vi giunsero da Torino il gran cancelliere, i magistrati, i ministri e i gerali: con essi Madama Reale tenne il grande consiglio, in

cui dichiarò la reggenza cessata, e ringraziò la provvidenza divina dell'aver potuto rendere al suo figliuolo un retaggio più volte minacciato d'una totale rovina. Il giovine Duca, forse già preparato a questa scena, gettossi lagrimando a piè di sua madre, scongiurandola con parole commoventi a non privarlo della sua saggia direzione, ed anzi a non abbandonare ancora le redini del governo: ella rialzandolo, gli diede un tenero amplesso, ed allora tutti i personaggi intervenuti a quel gran consiglio, circondarono il principe, e piegato il ginocchio, gli baciarono la mano. Tosto che ciò si seppe in quella città, le campane suonarono a festa, si udì il rimbombo de' cannoni e le grida di viva il Duca vi echeggiarono da ogni parte. Partirono subito corrieri apportatori di lettere, che annunziavano a tutti i comandanti delle piazze, ai vescovi, e ai membri delle corti supreme, che Carlo Emanuele II era pervenuto alla sua maggior età, e che la reggenza era terminata. Numerose truppe, che nella sera precedente eransi accostate ad Ivrea con tutto l'apparato militare, entrarono in quella piazza: le soldatesche, che la presidia-vano a nome del principe Tommaso, ne uscirono, e il comandante di esse fu provveduto a riposo.

Lo stratagemma di cui si valse la duchessa in quest'occasione, fu così tempestivo ed opportuno, che nella sera medesima del 20 di giugno le pervennero lettere del re di Francia, con cui ella era invitata a non cangiare ancor nulla per riguardo al governo degli stati suoi. Siffatte lettere erano scritte a persuasione dei principi Maurizio e Tommaso, i quali quando furono informati di quanto era accaduto in Ivrea, e del nuovo ordine di cose in Piemonte, ne mostrarono il loro dispetto; ma per buona sorte nè l'uno nè l'altro erano a quel tempo in grado di riaccendere le faci della discordia.

Il principe Maurizio avanzato negli anni, apopletico, e senza figliuoli, al tutto mancava dell'energia necessaria per mettersi alla testa di un partito, e il suo fratello non poteva più nulla operare a suo vantaggio in questa circostanza, perocchè era tutto occupato col Mazzarino di una sua spedizione contro di Napoli, per togliere agli spagnuoli quel regno.

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