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per cominciare un'altra guerra quando questa fosse termi nata; e così sempre vincendo e sempre depredando non si mostrò ancor pago finchè non ebbe esaurito il sangue e l'oro de' Celti, de' Belgi, de' Germani, e infine de' Britanni. Per tutte queste imprese egli niuna cosa giudicò più necesCesaria che il ben munire e ben custodire il passaggio delle alpi taurine; perchè, siccome usava di campeggiare ne' bei mesi dell'anno al di là dai monti, e ritornarsene nell'inverno in Italia, per nutrir sempre le guerre di fuori, ed accendere le fazioni dentro di Roma; così non vedendo altro passaggio più opportuno a' suoi disegni, ben custodendo le nostre alpi, diede ad esse il suo nome, chiamandole Giulie, ed avendo per conseguente eletta la città di Torino per sua piazza d'armi, chiamolla pure colonia Julia, e volle ad un tempo che i torinesi che avean dato tante prove di costanza e fedeltà verso il popolo romano venissero riguardati come romani cittadini. Si fu allora che la torinese provincia mutando l'antico suo modo di vestire nell'abito romano, di Gallia Comata divenne Gallia Togata. Quindi è, che siccome nell'assenza sua commetteva il governo della Gallia a Tito Labieno il più favorito de' suoi campioni sinche gli rimase fedele, così con estrema gelosia guardava e presidiava questa città, rimettendone il governo ad un prefetto, con titolo di custode delle alpi, a lui totalmente devoto e ligio. E per maggior sicurezza in guerra ed in pace accrescendovi il numero de' presidiarii, ne accrebbe il novero de' cittadini; e col favorirvi il commercio, cogli stipendii e coi generosi donativi rese Torino opulenta e splen-dida; il perchè dimostrandosi affezionato particolarmente a questa città, era dalla medesima sommamente amato ed

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onorato.

Ma il gran profitto che Cesare ritraeva dal trovarsi al comando della torinese provincia, fu appunto la cagione, per cui il senato fu molto sollecito a levargliela dalle mani; e siccome Cesare caldamente praticava in Roma, acciò che, non ostante la sua lontananza, gli fosse conferito il consolato, e gli si confermasse per altri cinque anni successivi il comando della Cisalpina, così il senato temendone la soverchia influenza, vie più stava fermo nel proponimento di negargli i

fasci, e di torgli questa chiave delle alpi, e le romane legioni, alla cui testa già si trovava. Mandò Cesare al senato un centurione per fare le ultime istanze, le quali rifiutate dai senatori, il centurione battendo colla mano il pomo della spada, disse con alto grido, se da voi non ottiene Cesare la sua domanda, dalla spada la otterrà. Il senato per queste audaci parole incollerito, dichiarò Cesare nemico della repubblica, non frappose indugi a distribuire le cariche, e diede il governo delle Gallie, e la custodia delle nostre alpi a quel Domizio Aenobardo, che aveva, come già s'è detto, trionfato degli Allobrogi. Fu questo il tizzo che accese la guerra più che civile. Cesare infiammato di sdegno va rapidamente al Rubicone, e intrepido lo passa. Corsero subito ad accostarsi a lui i tribuni della plebe, molti senatori di genio popolari, e le migliori squadre di Pompeo. Già erasi gettato nelle braccia di lui lo stesso Domizio, che abbandonato da' suoi soldati, abbandonò la custodia delle alpi; e così Torino ritornò sotto il dominio di Cesare, da cui solo ribellossi Labieno per abbracciare il partito di Pompeo. Fatto è che nel breve spazio di sessanta giorni, Cesare ritornò a Roma senza contrasti; e non trascorse gran tempo ch'egli trionfò de' Galli transalpini, dell'Egitto, di Farnace, e del re Juba.

Allora fu dichiarato dittatore perpetuo con autorità su→ prema non solo sopra tutti i popoli, ma sopra tutte le leggi; allora ei si fece Pontefice Massimo e volle mostrare ch'ei solo sapeva regnare, perchè solo sapeva usare del tempo. Allora fu posta la sua immagine tra le immagini degli Dei.

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Ma non è mai troppo lunga una grande prosperità, nè troppo durevole una subita potenza. I pugnali di Bruto, di Cassio e di altri senatori uccisero Cesare; senza por mente, che credendo di aver liberato Roma da un tiranno, le ne fecero nascer molti. Concorsero tosto a disputare il sommo impero il giovane Ottaviano Nipote, figlio adottivo di Giulio Cesare, e Marco Antonio ed Emilio Lepido. Se non che gli uccisori di Cesare credevano di conservare la libertà dividendo fra loro la patria: ed il senato, che pretendeva tutta intiera l'autorità, e poi n'ebbe la minor parte, si diede senza ritardi ad assegnare i governi e le provincie; ma presto

si vide che quegli né aveva il comando, che audacemente le rapiva. Lepido con l'autorità consolare ridusse la torinese provincia e le Gallie sotto l'arbitrio suo; ed al passaggio delle taurine o giulie alpi deputò Cleone a governatore. Il senato assegnò là cisalpina, a Bruto, e Marco Antonio gliela rapi. Fu Marco Antonio posto in fuga da Ottaviano; má fug-gendo, essendogli conceduto da Cleone il passaggio delle nostre alpi, andò a cercar Lepido, onde Torino, non sapendo a chi obbedire, sen rimaneva in una grande incertezza, e pregava senno a chi avrebbe dovuto comandarla. Finalmente Ottaviano, Antonio e Lepido credettero di unirsi in istretta lega, dividendosi le spoglie dell'impero in tal guisa, che ad Antonio toccasse la Gallia cisalpina e transalpina; a Lepido la provincia Narbonese con la Spagna; ad Ottaviano l'Africa, la Sicilia, la Corsica e la Sardegna, riserbando la divisione delle altre provincie tra loro, dopo la morte degli uccisori di Cesare. Torino, per siffatta divisione, rimase sotto il governo di Marco Antonio, il quale, partito per far guerra a Bruto ed a Cassio, commise il regime della Gallia e delle sue legioni, che guardavano il passo delle nostre alpi, a Fusio Caleno. Ma appena i triumviri spogliarono gli uccisori di Cesare, rivolsero le armi l'un contro l'altro. Ottaviano con l'ajuto di Antonio avendo abbattuto Lepido, altro non gli restava se non di abbattere Antonio per trovarsi solo all'impero il primo colpo per infievolirne il potere fu quello di togliergli la cisalpina, e principalmente la città di Torino, nel cui forte presidio, per l'opportunità del passaggio, egli avea la principal sua fidanza: ma i torinesi, che non conoscevano altro impero in allora, tranne quello di Antonio, sotto gli ordini di Fusio Caleno, gli resero vana la forza. Se non che venne a morte in quel frangente il valoroso Caleno, e il governo di Torino passò al figliuolo di lui: questi indotto più dall'industria, che dalla forza di Ottaviano rimise nelle sue mani le alpi e le legioni, che Antonio avea per sicurezza al piè delle alpi. Dopo ciò potè Ottaviano mettersi agevolmente nel tranquillo possesso della Gallia transalpina e nella Spagna; ed in tutte le forti città pose governatori e presidii a lui fedeli. Frattanto egli desiderando d'esser chiamato Romolo, la romana repubblica, per consiglio

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di Munacio Planco, amò meglio di chiamarlo Augusto; nome più grande e più sacro, ma più lontano dalla regia dignità. Quindi è che siccome Giulio Cesare per onorare Torino la denominò Giulia, così Augusto per maggiormente onorarla le diede il suo, molto più illustre e presago di più felici incrementi; e diffatto sotto quel gran principe la nostra capitale crebbe sommamente in grandezza, maestà ed opulenza, come si vedrà in appresso. È da notarsi che il nome di Augusto che prese allora Torino, e con cui la vediamo. appellata da Tolomeo, da Plinio, da Tacito e da Marcellino, non s'imponeva che ai capi di provincia, come Augusta Vindelicorum, Augusta Britanniarum etc.

Affinchè si possa conoscere quale sotto di Augusto sia presto divenuta la condizione di Torino per riguardo alla sua interna amministrazione, è d'uopo riflettere quale fosse lo stato politico d'Italia e l'amministrazione delle cose di Roma allorchè tutte le città e tutti i borghi divennero quasi membri d'una città sola, e che molti milioni di persone avevano acquistato il diritto di trovarsi agli squittinii per crear magistrati e ordinar leggi. Ma poco spazio ebbero a durare in quello stato le cose di Roma; e certo non potean durar lungamente. Ottaviano, trovatosi arbitro d'ogni cosa, se non ebbe ingegno così felice ed attività pari a quella di Giulio Cesare, suo zio materno e padre per adozione, volle pure seguirne l'esempio; e forse la cognizione ch'ebbe dei suoi disegni, lo spinse a riformare lo stato in quella maniera che la vastità del dominio richiedeva, e che la fresca memoria della libertà potea sopportare. Quantunque dall'un canto il governo d'Augusto e de' successori potesse chiamarsi dispotico, giacchè essendosi riservato il comando delle armi per tutto l'impero e nella capitale, i cesari potevano sempre violentare, e violentarono in seguito a loro grado tutti gli ordini dello stato, tuttavia certa cosa è, che di sua natura il governo ordinato da Augusto fu di forma mista, o vogliam dire monarchia temperata coll'autorità d'un senato, e colla libertà e podestà popolare. Però gl'Italiani, non solamente per i diritti acquistati mentre ancora la repubblica era in piedi, potevano al pari de' Romani proprii e naturali ottener qualsivoglia uffizio e dignità; ma per un bello e memora

bile ripiego, che fu immaginato dá Augusto, poterono di casa loro dar le voci per le elezioni de' magistrati che si facevano in Roma. Il ritrovamento fu questo, che circa il giorno determinato in cui si dovevano tenere i comizii nella capitale, şi congregassero i decurioni delle altre città, e raccolte le voci si mandassero a Roma suggellate per conferirle coi suffragi del popolo romano. La città di Torino pertanto continuò anch'essa a dare a questo modo i suoi suffragi per le elezioni de' magistrati che si facevano in Roma; e continuò a valersi della facilità di un tale ordinamento finchè venne abolito, probabilmente nella stessa occasione in cui vennero aboliti i comizii di Roma; ma Torino continuò ad avere l'interna amministrazione e il governo di se medesima, a crearsi i suoi magistrati per giudicar le cause, per regolare l'interna polizia, ed eziandio per levar qualunque sorta di contribuzioni o di carichi, che o per bisogno del paese, o per servizio del principe potessero occorrere: vero è per altro che dalle sentenze e dagli ordini de' suoi magistrati municipali si poteva sovente aver ricorso ai consoli, ai pretori ed ai prefetti della città di Roma; e che certi processi più segnalati solevano anche di prima istanza trattarsi nel

senato romano.

Se non che mentre Augusto era omai considerato come il signore del mondo, gli abitatori delle nostre alpi non vo→ levano per anco obbedirgli. Nell'anno 35 avanti l'era nostra tutta la valle dei Salassi erasi posta in piena rivolta; ma quei valleggiani erano di bel nuovo debellati e costretti a ritirarsi alle alte montagne. Dieci anni appresso ebber eglino l'ardimento di sollevarsi un'altra volta, e Terenzio Varrone fu spedito contro di essi coll'ordine di distruggerne l'intiera popolazione: a tal effetto questo generale pose gli alloggiamenti nel sito della valle, dove s'incontrano le due strade delle Gallie e dell'Elvezia, ed occupatene le principali positure, ottenne che i Salassi, vedendo l'impossibilità di una utile resistenza, a lui facilmente si sommettessero. Terenzio, per obbedire all'ordine del senato, loro impose gravi con. tribuzioni, e nei luoghi da essi abitati mandò le sue coorti affinchè via conducessero la gioventù, e traessero quelli che avevano impugnato le armi insieme con le loro famiglie ad

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