Immagini della pagina
PDF
ePub

con l'infante Isabella, figlia unica ed erede di D. Pedro di Braganza re di Portogallo.

La duchessa di Savoja e la regina di Portogallo erano sorelle, figliuole di Carlo Amedeo di Savoja, duca di Nemours, ucciso in duello dal duca di Beaufort nel 1652: esse formarono il progetto di quest'unione tra i loro figli, e condussero questo affare con tanto ardore, e con sì grande sagacità, ch'esso fu conchiuso a malgrado dei forti ostacoli che dovevano opporsi alla sua buona riuscita. Una legge fondamentale del Portogallo vietava che un'infante erede del trono potesse divenir la sposa d'un principe straniero. Fu tolto quest'ostacolo col provare che il duca di Savoja discendeva, per la sua quarta avola, dal gran re Emanuele, di cui la memoria è sempre cara ai portoghesi. Si promise che il giovane principe andrebbe a stabilire in Lisbona la sua residenza. In fine, gli stati della nazione riuniti derogarono dalla legge ivi detta dell'Amego sotto quest'ultima condizione, e il duca di Savoja venne preferito da loro al re di Spagna che cercava la medesima alleanza. Nel 1682 dodici vascelli portoghesi, sotto il comando del duca di Codoval, approdarono a Nizza per ricevere il duca di Savoja e condurlo a Lisbona. Voi sapete, scrisse madama di Sevigné a sua figlia, che la duchessa di Savoja desidera ardentemente che si celebri il matrimonio di suo figlio con l'infante di Portogallo. I cardinale d'Etrée, nostro ambasciatore a Torino, donò a Madama Reale il di lei ritratto molto rassomigliante, accompagnato dalle virtù e da ciò che le fa riconoscere. D'innanzi a lei è il giovine duca, bello come un angelo, circondato dagli scherzi e dagli amori: la sua genitrice gli mostra con la destra mano il mare e la città di Lisbona, e in lontananza la gloria e la fama che porta corone; nel basso del quadro si leggono queste parole di Virgilio ingegnosamente applicate, Matre dea monstrante viam: il tutto è riccamente ornato di diamanti. Tultavia il matrimonio progettato con tanto desiderio e con sì grande accorgimento dalla duchessa di Savoja non si potè celebrare.

Erasi precedentemente veduto in tutte le minorità la nobiltà torinese dividersi in due partiti, l'uno amico, l'altro nemico de' francesi. Questi ultimi non erano mai stati così

in favore alla corte di Torino, come lo erano sotto la reggenza della duchessa Gioanna, e non mai eransi tanto procurata la malevolenza dei naturali del paese; a tal che all'intenzione di Madama Reale opponevasi altamente l'affetto dei torinesi, ed anzi quello dell'intiera nazione verso il suo sovrano. Dicevasi apertamente che Madama Reale avea risoluto di mandare il suo figliuolo a Lisbona nello scopo di ritenere in tutta la sua vita le redini del governo, sperando che a tale scopo avrebbe sempre avuto gli ajuti della corte di Parigi. Dicevasi che Torino avrebbe perduto tutto il suo lustro, e che il Piemonte sarebbe divenuto una provincia portoghese, conculcata dai governatori portoghesi, come la Lombardia dagli spagnuoli. Omai fremevano tutti gli animi, ed alcuni tra i principali nobili trovarono il modo di far sentire queste ragioni al giovine duca. Di questo numero erano il conte Provana di Bruino, il marchese Carlo di Simiana, il marchese Emilio di Parela e il principe della Cisterna. Vittorio Amedeo persuaso delle ragioni che gli addussero questi insigni personaggi, cominciò mostrarsi offeso che sua genitrice non lo avesse ragguagliato di un affare che il riguardava così personalmente, risolvette di non contrarre quel matrimonio, e nel tempo stesso di metter fine alla reggenza. Frattanto il Cadoval giunse a Torino, e gli fu detto che il giovine duca trovavasi aggravato da ardente febbre; e seppe che i medici erano fermamente d'avviso ch'egli non avrebbe potuto sostenere gl'incomodi della navigazione: anzi uno dei clinici più accreditati di Torino scrisse un consulto che fu tostamente spedito a Lisbona, in cui si dimostrava che il Duca sin dagli anni più teneri era infermiccio, che lasciava poca speranza della sua vita, e che in quei giorni era travagliato da grave morbo: rappresentò insomma lo stato. infelice della complessione del Duea in siffatto modo, che nella capitale del Portogallo si tenne per fermo dai principali personaggi di quella città che non sarebbesi potuto sperare successione da un principe di così mal ferma salute. La regina di Portogallo non indugiò pertanto a scrivere una lettera alla duchessa Gioanna, sua sorella, che il matrimonio più non potevasi recare ad effetto, che i voti da prima favorevoli in Lisbona eran divenuti affatto contrarii, massime dacchè 48 Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

si seppero anche dal popolo le male informazioni date dai medici torinesi sulla malattia del giovin nostro duca. Questi intanto avea dichiarato altamente che giammai avrebbe abbandonato i suoi stati ereditarii: e la sua ferma risoluzione fu poi giustificata da quanto accadde; perocchè due anni appresso, contro ogni probabilità, la regina di Portogallo partorì un figliuolo, e l'infante Isabella morì nel 1690 d'una malattia di languore, che dopo averla falta soffrire durante sei mesi, la tolse di vita.

Intanto si trattò con migliori auspizi il matrimonio del 'Duca con Anna d'Orleans. Vittorio Amedeo aveva allora diciott'anni. Indi a non molto, quelli che aspiravano ad ottenerne il favore, gli suggerivano in secreto, di usare i diritti che gli erano dati dall'età sua e di prendere le redini dello stato. La prigionia dei marchesi di Pianezza e di Parela, che erano i suoi principali favoriti, affrettò la sua risoluzione ch'ebbe subito eseguimento. Addì 16 febbrajo del 1686, indirizzò ai ministri di stato, ai grandi della corona, ai generali dell'esercito, ai comandanti delle piazze forti una circolare per render loro noto, che da quel giorno aveva determinato di regnare da se medesimo. Sua genitrice, che a tempo seppe ciò che aveva fermamente risoluto Vittorio Amedeo, non indugiò a scrivere dal suo canto una lettera piena di tenere espressioni al suo figliuolo, in cui gli disse che veggendolo pervenuto all'età di non aver più bisogno di Lei per ajutarlo nel governo, essa bramava di sottrarsi al peso dell'autorità e sollecitava con istanza un riposo divenuto necessario allo stato di sua salute.

Così ebbe termine la reggenza, senza che da una parte e dall'altra fosse offesa la decenza, nè turbata la pubblica tranquillità. La Duchessa vide con dolore uscir dalle sue mani il potere assoluto, che ad esempio di sua suocera avrebbe voluto conservar lungamente oltre il termine prescritto dalle leggi dello stato. Gli uomini che la consigliavano e che l'avean sospinta a rigori indiscreti contro i favoriti di suo figliuolo, ebbero a pentirsi della loro inconsideratezza. Subito si trattò di mettere in libertà il marchese di Pianezza ed il conte di Druent, che la Duchessa aveva fatto imprigionare. Vittorio Amedeo ebbe la delicatezza di

[ocr errors]

ciò chiedere alla madre come un favore « Figlio mio, ella rispose con grazia e dignità, quando io ti ho rimesso le redini del governo, non ti ho anche rimesso tutti i risentimenti che aver dovetti in qualità di reggente? ».

Madama Reale Gioanna Battista, durante la sua reggenza, che fu assai più quieta di quella di Madama Cristina, non ebbe altro grave fastidio tranne quello delle sommosse eccitatesi nella provincia di Mondovì a cagione della esorbitante imposta del sale; sommosse che vennero represse nel modo che abbiam riferito nella storia di quella città. Del resto la duchessa Maria Gioanna Battista segnalò il suo governo facendo buone leggi, ed emanando saggi provvedimenti relativi all'esercito, che al suo tempo furono applau❤ diti. Essa era donna di molti accorgimenti, generosa, pia; e di queste sue doti i torinesi provarono molti ottimi effetti. L'abate di s. Real fece il di lei elogio in un discorso in cui vantai bei giorni di sua reggenza, e prenunzia mille prosperità al giovine Sovrano, che sta per cominciare la sua luminosa carriera.

[ocr errors]

Vittorio Amedeo II, sebbene allevato fra le dolcezze di una voluttuosa corte era stato fornito di un carattere risoluto e fermo, e quale l'esigeva la politica situazione del Piemonte, Al primo sguardo che volse all'esercito, conobbe la necessità d'un incremento nella cavalleria, e presto l'accrebbe di numero. Avvenne a quei dì che la corte di Francia, od animata dallo stesso zelo, che dettato avea la rivocazione dell'editto di Nantes, o per porre nell'impiccio la corte di Torino, a fine di tenerla a sè ligia nel tempo delle nuove sue discordie coll'Austria, avea costretto Vittorio Amedeo a congiungere le sue colle galliche armi per iscacciare insieme dalla loro valle i valdesi. I galli furono sconfitti presso s. Germano; ma Vittorio, più felice, condusse a termine la spedizione, costringendo i settari a rifuggire nei paesi di loro credenza.

L'eccessiva ambizione di Luigi XIV avea concitato, per raffrenarla, una poderosa lega tra la Germania ed i marittimi potentati, la quale ordivasi segretamente in Augusta. Vittorio Amedeo, di spirito altero, ristucco degli affronti della corte di Parigi, e quasi avvilito del patrocinio che

ella fingeva di concedergli contro le italiche signorie, da cui nulla aveva da paventare, appetiva naturalmente una fausta occasione per levare dal collo al Piemonte il giogo, sotto cui, già da oltre dieci lustri, gemeva. Le prerogative di Re, con alcuni feudi nelle Langhe, che gli prometteva l'imperatore d'Austria, stimolavano siffatta bramosia; ma egli scorgeva che, prima di abbracciar quel partito, era d'uopo, nelle sue circostanze, lo andar guardingo. Ad ogni modo proseguì ad ingrossare il suo esercito; e per chiarirsi delle buone intenzioni dell'Austria, si condusse a Venezia sotto colore di sollazzarsi nel carnevale, dove convenne altresì il duca di Baviera suo cugino, e diè colà principio a disposizioni relative alla presente condizione delle cose; quel viaggio però fece nascere qualche inquietezza nel ministro di Francia, il quale, per aver lume sovra le intenzioni di Vittorio, gli fece, al ritorno di lui a Torino, la richiesta di mandar tre de' suoi reggimenti all'esercito francese nelle Fiandre, a cui il giovine Duca, non ancora determinato all'alleanza propostagli dall'Imperatore, non osò rifiutarsi. A malgrado di questa cautela, due schiere francesi (1689), sotto il velo d'inviarsi nell'Insubria, soprastettero una in Avigliana, distante cinque leghe, e l'altra in Orbassano, lungi due leghe da Torino; il loro capitano chiese tremila fanti ed ottocento cavalli per guerreggiare, come ausiliari, al di là de' monti. Accordata siffatta dimanda, il superbo condottiero addomandò altresì per istatici la cittadella di Torino, Verrua e Vercelli. Si attristarono i torinesi, fatti consapevoli dell'audace domanda: il loro Duca, senza ricusarla apertamente, propose di affidare la cittadella di questa capitale e le altre due piazze a truppe veneziane ed elvetiche, e prese intanto a trattar con Parigi, sperando di acquistar tempo a mettersi in grado di opporre una giusta difesa a così inique violenze. Col pretesto di riunire le dimandate squadre, fece uscire dai presidi, ed assembrò sotto Torino un grosso di genti: i francesi considerati sempre come collegati, vennero di stanza nelle aperte città provveduti, mentre si attendeva l'esito dei negoziati da Parigi; non erano con tutto ciò meno vivi i negoziati con Vienna. Il risultamento fu che il duca di Savoja, il 5 giugno 1690, şoserisc

« IndietroContinua »