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sono uccisi tanti granatieri, ch'esse omai s'arrestano. Allora il principe Eugenio che trovavasi nel centro della linea, prende il galoppo e vola alla sinistra ad animare le schiere colla sua presenza. Il duca Vittorio Amedeo fa serrare sulla sinistra le brigate di Stillen e d'Iselbach per sostenere quella d'Haghen che già piegava. Questo movimento si eseguì così bene e con tanto vigore, che la vittoria più non rimase librata sull'ali. I due principi Sabaudi animando il coraggio de' proprii soldati, fanno sì che osan eglino ciò che il più alto valore non avrebbe nemmen potuto immaginare. I granatieri affrontano con maraviglioso ardimento quelle grandi elevazioni di terra coperte di fulmini di guerra, vi si lanciano furiosamente, e s'impadroniscono del trincieramento, dalla terza opera di fortificazione sino allo Stura. Il principe Eugenio ha il suo cavallo ucciso; è rovesciato nel fosso, ma tostamente si rialza; uno de' suoi paggi ed alcuni de' suoi domestici cadono spenti presso di lui. Vittorio Amedeo che vede piegare i nemici, va dirittamente alla terza opera di fortificazione le cui facce si fiancheggiavano reciprocamente; il fossato ne è così profondo ch'ei discende da cavallo per arrampicarsi sul parapetto, ed è seguito dal suo primo scudiero, da un ajutante generale dell'Imperatore, e da alcuni altri uffiziali di sua casa. I nemici avevano lasciato in quel sito tre cannoni, che presto si appuntano sopra di loro. I duca di Savoja è quindi sollecito a rimontare a cavallo, e siccome s'avvede che i nemici si sono gettati, parte sulla loro destra e sulla nostra sinistra, parte sulla loro sinistra e sulla mostra destra, e che quelli del centro allentano il passo, egli corre alla sinistra, ove sembra che i nemici fanno maggior resistenza; trova uno squadrone delle guardie del corpo e due altri dei dragoni del suo reggimento che si formavano al di là del trinceramento; si mette alla loro testa; va a piombare sui nemici, cui prende di fianco, e spingendoli con que' tre squadroni dalla linea sino al di là della strada di Leyni, finisce di metterli in rotta. In quest'occasione Vittorio Amedeo ricevette alcuni colpi di moschetto, e correva rischio di essere ucciso, se con un colpo di pistola non avesse prevenuto un cavaliere che se gli accostava furibondo. I suo scudiero ed un altro ch'era con lui ebbero i loro cavalli uccisi sotto di sè.

Il conte Daun ed il marchese di Caraglio che dal bastione della consolata osservavano attentamente ogni cosa, appena veggono i francesi in disordine, montano a cavallo, e vanno dirittamente ove i nemici cercano salvarsi colla fuga; giungono a tempo a poterli inseguire con buone squadre dei loro. militi, ed aprono un gran passsaggio alla città. Il signor di Seneterre, maresciallo di campo del gallico esercito, fu ferito mentre faceva quanto era in sè per rianimare le sue truppe atterrite; e si abbattè poi in un drappello di nostra cavalleria, da cui fu condotto prigioniero in Torino. I francesi scacciati dalle linee, se ne andavano scompigliatamente gli uni verso il castello di Lucento, e gli altri al vecchio Parco ed alla cascina denominata la Gioja. Essi credevano di potersi sostenere in tali positure; ma quelli ch'erano entrati in Lucento, vi furono tostamente assaliti dalle truppe cesaree che li scacciarono dopo un'ostinatissima zuffa. Vi furono in appresso squadre nemiche, che senza disfare il loro ponte sulla Dora, andarono al di là per occupare con un cannone l'elevata riva di Valdocco, donde fulminavano gli alemanni, che stavano sull'altra riva. Colà un altro combattimento fu ingaggiato, il quale terminò colla più grande strage dei nemici. Quelli che erano pervenuti al vecchio Parco ed alla cascina Gioja dovettero combattere col duca di Savoja, il quale essendo ito contro di loro con un corpo di dragoni e con un pezzo d'artiglieria, fece loro abbandonare quei posti, e talmente gli sbaragliò, che senza cercare il ponte che avevano presso N. D. del Pilone, gettaronsi quasi tutti nel Po, per salvare a nuoto la propria vita. Siccome parecchi soldati dispersi cercavano di passare pel suddetto ponte alla collina, si ebbe dai nostri il pensiero di apprestare fuochi d'artifizio in navicelli, i quali abbandonati senza guida alla corrente, dovevano ire ad accendere il ponte; ma per produrre l'effetto che si aspettava, o il fuoco fu troppo pronto a scoppiar nelle macchine, o l'acqua non ebbe la forza di sospingere i navicelli.

Durante il grande assalimento il principe di Sassonia-Gota incontrando nella sua mossa contro il nemico una grande difficoltà, era stato esposto per più d'un'ora ad un fuoco spaventevole che gli aveva ucciso molta gente, ed era stato

respinto egli medesimo; ma poi, sostenuto e soccorso da tre prodi condottieri alemanni, aveva potuto entrare con essi nelle trincee degli assedianti. Il duca d'Orleans ed il maresciallo di Marsin ch'eransi portati sui trinceramenti nel cominciar dell'azione, postisi alla testa delle loro truppe per animarle eransi avanzati intrepidamente in mezzo al più vivo fuoco: l'Orleans riceveva tre colpi nella corazza, ne riportava due ferite e ritiravasi per farsi medicare. Il maresciallo di Marsin più gravemente ferito, veniva trasportato in una cascina presso al convento dei cappuccini, detto la Madonna di Campagna,

Non lasciavano per tutto questo i francesi di far fronte da più lati al duca di Savoja, che qua e là scorrendo gli assaliva e gl'incalzava, secondato dal conte di Taun e dal marchese di Caraglio ambedue riputatissimi in fatti d'armi. Il duca della Feuillade che era nella trincea e che durante la battaglia spinse innanzi gli assalti, continuava a far battere in breccia; infine diede ordine a' suoi di ritirarsi con l'artiglieria: ma non essendo possibile di condurla via, fece metter fuoco al magazzino della polvere, distruggere, devastare e bruciar quello che abbandonar si dovea.

Una parte delle truppe francesi, dopo la disfatta, si ritirò verso Chivasso dove era il grosso equipaggio delle schiere che il duca d'Orleans avea condotte di Lombardia: le altre si ritirarono tra la Dora ed il Po, dove erano prima state accampate con parte di quelle che erano colà rimaste. II duca d'Orleans, abbenchè ferito, fece raunare un consiglio di guerra per vedere qual partito convenisse prendere molti uffiziali generali proponevano di rifugiarsi a Casale, persuasi di trovare il mezzo di conservar il Milanese ed il Mantovano, e di tagliar agli alleati la comunicazione col Trentino ed il Bresciano, dove erasi fermato il principe d'Hassia con un corpo di alemanni. Ma la strada ordinaria di Casale essendo occupata dall'esercito vittorioso, bisognava prendere la via di Moncalieri, dove temevano pure d'incontrare un corpo di seimila uomini piemontesi e tedeschi: presero pertanto il partito di ritirarsi a Pinerolo. Il marchese Albergotti gentiluomo aretino, eccellente capitano al servizio della Francia, trovavasi sulla montagna di Torino con circa dieci mila

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guerrieri per guardare le alture del Monte e la strada di Chieri. I prode ed esperto Albergotti prevedendo le conseguenze di quella ritirata che lasciava i vincitori padroni di tutta l'Italia, fece qualche difficoltà al primo comando che ricevette di seguitare l'esercito fuggitivo; ma replicatogfisi l'ordine negli stessi termini, lo eseguì.

Un quarto d'ora dopo il mezzodì cominciavano entrare in Torino prigionieri francesi, e gli equipaggi loro presi. I torinesi avevano già veduto abbastanza, per essere certi che l'esercito nemico era disfatto; ma la loro gioja era tuttavia imperfetta; e quasi non potevano credere ai loro propri occhi; perocchè gli assedianti battevano ancora in breccia, e le loro bombe cadevano ancora nella cittadella e su la città; ma un'ora dopo gli assediatori, colpiti dal terrore, prendono la fuga improvvisamente, si precipitano gli uni sugli altri, senza che si tiri sovr'essi un sólo colpo; abbandonano ogni cosa, credendosi fortunati di poter salvare fuggendo la loro vita. Presto si veggono giungere nella città alcuni di quelli che avevano seguito il duca di Savoja, i quali rendono certi i torinesi che la loro patria è libera, ed aggiungono che la vittoria è compiuta, assai più di quello che sarebbesi potuto sperare. Tutta la città vivamente se ne rallegra: le vie presto si riempiono di cavalli, di muli e di equipaggi tolti ai nemici: si vedono entrare in Torino moltissimi prigionieri, le cui armi debbono servire di trofei, ed i cui vessilli debbono essere appesi alle vôlte dei nostri templi. La città è piena d'un aggradevole tumulto: gli abitanti vanno in folla verso la porta susina ed escono fuori delle mura; urtano contro i lavori de' nemíci; loro si presentano grandi mucchi di terra; monti di gabbioni, profondi fossati, laberinti di varii rami di trincee: sono eglino sorpresi in veggendo quel rovesciamento che cangia l'aspetto dell'esteriore della città: essi mirano lungo le controscarpe orribili batterie di cannoni e di mortai tuttavia caricati; portano lo sguardo sopra una grande estensione di terreno coperto di pietre, di palle e di bombe; contemplano la cittadella in più parti distrutta, sfigurata dal fuoco dell'artiglieria: loro si presenta l'orribile spettacolo dell'abbattuto bastione di s. Morizio, non che la sinistra faccia di quello del beato Amedeo rotta dalla metà

in alto, smussata la punta della mezzaluna, il sinistro lato tutto aperto da due larghe brecce, i parapetti delle controguardie abbruciati. Un siffatto spettacolo rimette negli animi dei torinesi le idee spaventose dell'infortunio, di cui furono per sì lungo tempo minacciati; ed intanto vanno affollati ai luoghi ove erano accampati i nemici; e veggono con sorpresa il quartiere detto del Re, e quelle vie, su cui erano stati aperti tanti magazzini, nei quali, come in una grande città, erasi posto dai francesi tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita: nel quartiere di Lucento videro enormi ammassi di farine, parecchi forni, e varii battelli di rame, atti a sostenere due ponti sulla Dora; e magazzini di polvere nella chiesa di Pozzo di strada, ed uno smisurato ammassamento d'ogni sorta d'armi, di palle, di bombe e di granate, e strumenti bellici d'ogni maniera.

Or mentre i cittadini pascono lo sguardo all'aspetto di tutti quegli apparecchi guerreschi, con cui era minacciata la distruzione della loro patria, i vinti francesi fuggendo per la più parte alla ricisa verso Pinerolo, cadono ancora in gran numero prigioni di una squadra subalpina che si fece ad inseguirli; a tal che di sessanta mila galli, appena venti mila poterono colla fuga mettersi in salvo. Non vi fu mai più compiuta vittoria, nè che abbia prodotto più grandi risultamenti. Scrissero nelle loro relazioni i francesi, che di quarantaquattro mila tra cavalli e fanti che contavansi in quella fatal giornata, non più che mille restarono uccisi sul campo di battaglia; ma egli è certo che i nemici vi lasciarono otto mila tra morti e feriti, e che gli altri in gran parte furono fatti prigionieri: oltre il maresciallo di Marsin, che morì nella domane, vi perdettero la vita tre altri generali, cioè il conte di Murvè, il marchese ed il cavaliere di Kercado. Le spoglie dei vinti furono immense: ducento diciannove tra cannoni e mortai vennero abbandonati da loro, come anche una prodigiosa quantità di ogni sorta di munizioni, tutti gli equipaggi dell'esercito, tutti gli oggetti dell'accampamento, e perfino le argenterie che i generali avean seco trasportato pei servigi delle mense. Le bestie da soma e da tiro furono prese in tanto novero, che si vendettero a vilissimo prezzo. Nel giorno medesimo il duca di

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