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Savoja ed il principe Eugenio entrati in Torino, per porta palazzo, tra le acclamazioni di un popolo ebbro di gioja, andavano alla chiesa metropolitana a rendere le dovute grazie al Dio degli eserciti.

Vittorio Amedeo riconoscendo ch'egli doveva principalmente al cielo la liberazione del suo paese, stabilì un'annua solenne festa da farsi in tutti i luoghi de' suoi dominii nel giorno della natività di N. D., in cui si riportò un trionfo cotanto segnalato: col prodotto delle spoglie tolte al nemico, volle il Duca che un magnifico tempio fosse edificato sulla collina nel luogo medesimo, in cui egli ed il principe Eugenio avevano concertato il piano della battaglia: volle che le sue ceneri e quelle de' suoi successori vi fossero deposte, desiderando così che quel santuario, ricordando giorni di gloria a' suoi discendenti, li rendesse ad un tempo avvertiti della vanità delle umane grandezze. Indi a non molto, cioè addì 24 di dicembre, si spiegarono nel maggior tempio di Torino cinquanta cinque vessilli tolti ai francesi in quella memoranda battaglia, la quale liberò l'Italia, come il famoso combattimento di Hochstett aveva liberato l'Alemagna.

Ci ascriveremmo a colpa, se chiudessimo questo capo senza ricordare che durante quel lungo e terribile assedio tutte le classi dei torinesi gareggiarono incessantemente nel dar prove stupende della grande pietà e del sincero amor patrio ond'erano mirabilmente accese. Verò è che le compagnie dell'urbana milizia s'infiammavano ad una vigorosissima difesa, animati dalla voce dei ministri del santuario, tra cui distinguevasi per zelo prodigioso il P. Valfrè, cui veneriamo sugli altari, il quale non cessava dal rendere certi i soldati del presidio, ed i militi urbani di essere protetti dal Dio degli eserciti, purchè lo invocassero con fede viva; ed intanto li confortava a recarsi a supplicarlo devotamente nei templi, od almeno a prostrarsi davanti ad un'ara che per maggior loro comodo aveva egli fatto innalzare sulla piazza di s. Carlo; ara dedicata alla Regina de' cieli, coll'assentimento dell'arcivescovo Vibò, che sebbene molto avanzato negli anni ed infermiccio, adempiè tuttora gli obblighi del suo pastoral ministero con ardore veramente apostolico, e durante questa orribile calamità si

trovò mai sempre nei luoghi, ove la sua presenza avesse potuto giovare ai travagliati cittadini. Le chiese, a cui più numerosi accorrevano gli afflitti torinesi, erano quelle situale nella parte nuova della città: ma in tutte si eseguivano in ogni di le sacre funzioni, ed in un giorno della settimana , per provvidenza dei reggitori della città, con pompa di funebri apparati, si celebravano i santi sacrifizii in suffragio delle anime degli uffiziali e de' soldati morti in difesa della patria.

I parrochi e gli altri sacerdoti dell'uno e dell'altro clero, infiammavano nelle loro chiese gli accorsivi abitanti ad opere pietose e caritative, e ne davano eglino stessi l'esempio: in ciò rifulse massimamente il fervore dei teresiani, dei PP. della buona morte, dei barnabiti, dei filippini, degli scalzi della redenzione degli schiavi, i quali uniti à molti cittadini, accorrevano ai luoghi percossi dalla furia del nemico, si recavano sulle braccia e sulle spalle i feriti, e negli spedali per esservi curati li trasportavano. Andavano tutti a gara per soccorrere i generosi difensori, con ristori o con danari. Frattanto i torinesi d'ogni sesso, d'ogni età, e d'ogni condizione concorrevano ai più penosi, ed anche ai più rischiosi lavori della difesa di questa capitale.

Trecento donne divisero le fatiche degli scavi, dei trasporti dei materiali sotto le batterie dei nemici, senza che il loro ardore si rallentasse alla vista delle compagne che cadevano morte a' loro fianchi. I poveri dello spedale della carità lavoravano incessantemente nei sotterranei, nei siti più pericolosi e sacrificavan con gioja, per salvar la città, una vita sostenuta dalle caritatevoli cure de' loro concittadini. I signori della congregazione di s. Paolo, che a quel tempo adempievano con grandissimo zelo il loro uffizio, mandavano in giro i loro uffiziali a portare abbondevoli soccorsi alle persone vergognose in cui la povertà era colpa della fortuna; e poichè le rendite dell'amministrazione più non bastavano, sopperivan le borse degli stessi amministratori di quella congregazione, e sopperiva anche il danaro de' più facoltosi. I decurioni, specialmente i due sindaci, l'avvocato Boccardo ed il conte Sansoz, mastro di ragione, eransi a tempo adoperati in fare copiosi ammassi di legna,

fieno, grani, farine, vino ed armenti per provvedere ai bisogni della desolata popolazione. A più di sei mila poveri furon distribuiti gli alimenti in tutto il corso del terribile disastro; nè mai si lasciarono mancare commestibili, e danari alle corporazioni religiose, agli spedali, ai conservatorii, agli ospizii. Orrore e pietà misti rendevano uno spettacolo unico al mondo.

LIX.

Conseguenze della gran giornata dell'8 settembre sotto Torino.

I due vittoriosi principi di Savoja non si addormentano sui propri allori. Premurosi di raccogliere il più gran frutto del loro trionfo, ed impazienti di rigettare sul suolo nemico. il flagello della guerra che da sì lungo tempo desolava il nostro paese, unirono tutte le loro forze per riconquistare le piazze subalpine, e sottomettere la Lombardia: assediarono tostamente Chivasso, che dopo alcuni giorni di difesa, capitolò. Presero Crescentino che non fu in istato di far resistenza: si trovò in queste due piazze una gran quantità di grano e d'altre sorta di munizioni che i nemici vi avevano accumulate, e che non ebbero tempo di consumare o distruggere. Vercelli dimostrò tanto maggior giubilo di ricevere il suo Sovrano, quanto meno ebbe a soffrire prima di aprirgli le porte; poichè non si trovava guarnigione nemica che si potesse opporre. In Novara il presidio era poco numeroso; non contandovisi che ottocento uomini; ma la città essendo ben fortificata, i cittadini presero tosto le armi: poi riflettendo che altro non avrebbero fatto che costringere i principi vittoriosi a trattarli con maggior rigore, se tardavano ad arrendersi, forzarono il governatore a capitolare. Questo accadeva addì 20 di settembre, dodici giorni dopo la riportata sempre memoranda vittoria. Frattanto i presidi francesi che occupavano Ivrea, Bard, Verrua e Trino, attoniti de'trionfi delle nostre armi, abbandonarono quelle piazze e sbiettarono per lo minor s. Bernardo: Asti sola dai galli in tempo dell'assedio di Torino occupata, oppose una ostinatissima difesa agl'imperiali, che s'impadronirono intanto senza ostacolo di Tortona, di Arona e di Pavia.

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Dopo ciò, Vittorio Amedeo, fatta vettovagliare e restaurare Torino, s'inviò alla volta di Milano; e superate alcune difficoltà entrò in quella capitale dell'Insubria, ne prese a nome dell'Imperatore il possesso, e ricevette il giuramento dei principali magistrati, della nobiltà e della cittadinanza. Non si durò gran fatica a prender Lodi. Il duca di Savoja si avanzò a Pizzighettone. Gli fu d'uopo costruire due ponti per istringere quella piazza da ambe le sponde dell'Adda; operazione che ne fece ritardare quindici giorni la presa. Il Duca spedì di colà un rinforzo sotto di Asti, che quindi venne in tre di soggiogata: Valenza ed Alessandria calarono agli accordi: la piazza di Casale ancora si difendeva, ma il principe Eugenio, dopo la resa d'Asti, si congiunse con Vittorio, e la città si sottopose; il castello per altro sostenne ancora tredici giorni di aperta trincea.

Le schiere dei francesi sull'Adige, ed il presidio del castello di Milano ebbero a gran mercè il poter patteggiare la loro ritirata al di là dalle alpi. Così, in poco tempo fu ricuperata tutta Italia, che sei anni d'infortuni avevano sottoposta alle armi di Francia.

L'esercito subalpino, lasciati dodici mila uomini in osservazione alle forre d'Aosta, di Susa e di Pinerolo, attraversò, numeroso di trentacinque mila battaglieri, il colle di Tenda, perchè fu d'uopo tentar un'impresa vivamente sollecitata dal governo inglese, e principalmente dalla regina Anna, cioè quella di prender Tolone, celebre per la piazza d'armi, e porto di guerra nella Provenza e nel Mediterraneo. Invano il principe Eugenio aveva rappresentato a quella regina le difficoltà e la dubbia utilità di tale spedizione. L'esercito alleato sotto il comando del duca di Savoja e di alcuni principi sassoni ed alemanni entrò in Provenza, pose l'assedio a Tolone per terra, mentre le squadre inglesi dovevano assaltarlo per mare. Vani riuscirono e dall'una e dall'altra parte i tentativi. Il Duca fu costretto a rinunziare all'impresa che aveya costato somme immense e non procurò alcun vantaggio agli alleati; la ritirata di questi fu assai più difficile che non fosse stata quella invasione. Al loro ritorno al di qua delle alpi, assediarono Susa e la Brunetta, ch'erano ancora

50 Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

in poter de' francesi, e che dopo una debole resistenza si

arresero.

L'Imperatore aveva promesso di unire Vigevano col suo territorio agli stati di Savoja; ma dacchè vedevasi padrone del Milanese, più non voleva abbandonarne alcuna posizione. Vittorio Amedeo dichiarava che non sarebbe uscito in campo prima che fosse attenuta quella promessa. Se non che gl'inglesi e gli olandesi lo indussero finalmente a mettersi (1708) alla testa del suo esercito nel mese di luglio; egli fece primamente un tentativo sulla frontiera di Francia ; quindi si rivolse contro le fortezze della Perosa, di Exilles è di Fenestrelle, e le tolse tutte tre ai francesi, dopo un lungo assedio. Durante l'anno 1709, sempre più malcontento della corte di Vienna, non fece impresa di rilievo; il conte Daun avanzò in Savoja fino ad Annecy, ma ripassò i monti all'avvicinarsi dell'inverno. Lo stesso generale, l'anno dopo, volle penetrare nel Delfinato per la valle di Barcellonetta, e ne fu impedito dal maresciallo di Berwich. La campagna del 1711 si fece senza grandi risultamenti. Vittorio Amedeo più non faceva nessuno sforzo per secondare i suoi alleati.

LX.

Vittorio Amedeo diviene re di Sicilia:

sua incoronazione a Palermo:

Torino altamente se ne rallegra, quantunque in sulle prime ne sia pregiudicata.

Anna regina d'Inghilterra volle profittare, nell'anno 1712, del malcontento di Vittorio Amedeo per indurlo ad una pace separata, e gli offerì il regno di Sicilia. Il nostro Duca, che ambiva sommamente il titolo di re, volendo che tale corona gli venisse conferita coll'assentimento di tutti i potentati, mandò i suoi ambasciatori al congresso di Utrecht, ove nella primavera dell'anno 1713 si stipulò il trattato di pace che fu preludio di quello di Rasdadt, il quale nel seguente anno pose termine alle lunghe e sanguinose querele ch'erano sorte per la successione di Spagna. Il duca di Savoja in virtù di questi due trattati ottenne l'isola di Sicilia, che Filippo V gli ri

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