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Vienna appresero che avevano a fare con un nuovo Re. Era giunto all'età di settantaquattro anni, una parte della quale egli avea passata in guerre seriosissime, ed il resto in occupazioni fors'anche più penose che le stesse guerre. La sua sanità era indebolita, e pareva bisognosa di riposo e di cura. Vedovo già da quattro anni, ei non voleva nè restare senza una compagnia di sua confidenza, nè aggravar lo stato pel mantenimento d'una nuova sposa, prendendola di casa sovrana. Oltre a ciò aveva un figlio capace di regnare, il quale già aveva figliuolanza maschile. Risolvette perciò di lasciare il trono, e nel tempo stesso di ammogliarsi a suo genio con una gentildonna capace di fargli buona compagnia nella sua vecchiezza e nel ritiro ove proponevasi di finire i suoi giorni.

Sposò dunque, il 12 d'agosto del 1730, la contessa di s. Sebastiano, figlia del conte di Cumiana, la quale sotto il nome di madamigella di Cumiana era stata figlia d'onore di madama Reale madre del Re, nel tempo che invece di dame maritate o vedove, si prendevano in corte nobili da-. migelle. Essa fu di poi maritata al conte di s. Sebastiano, del quale rimasta vedova, era stata scelta per dama d'onore della principessa di Piemonte, dopo che il Re stesso alle damigelle di palazzo ebbe sostituito gentildonne maritate. Dotata non solo di bellezza, ma di molto spirito e di tutte le amabili qualità che il Re cercava, la contessa di s. Sebastiano seppe molto ben dissimulare l'ambizione sua, od il medesimo Re, conoscendola, stimò bene dissimularla. Essa avea circa cinquant'anni, quando Vittorio Amedeo la sposò; ed il matrimonio non fu reso pubblico fuorchè dopo l'abdicazione, alla quale fermamente risoluto, volle eseguirla in modo che avesse aspetto di azione eseguita con animo pacato, e con matura riflessione. Chiamato a se il figlio. suo, gli dichiarò la sua intenzione di rinunziare. Carlo Emanuele, maravigliato, lo scongiura di cangiare risoluzione; ma il suo padre è irremovibile. Sceglie intanto per esempio l'imperatore Carlo V, e vuole che il medesimo cerimoniale sia osservato per la sua rinunzia. Ai tre di settembre del 1750, invita al palazzo di Rivoli i cavalieri dell'Annunziata, i ministri, i presidenti delle corti supreme e tutti i grandi

senza che alcuno, tranne il principe di Piemonte, ed il marchese del Borgo, sia informato dell'oggetto di tale straordinaria convocazione. Formata l'assemblea, il Re impone silenzio, ed il marchese del Borgo legge ad alta voce l'atto col quale Vittorio Amedeo rinunzia al trono, e rimette il potere sovrano a Carlo Emanuele suo figlio unico, ordinando a tutti i suoi sudditi d'obbedirgli. Tale dichiarazione era fondata sugli stessi motivi espressi da Carlo V: l'età avanzata, qualche indisposizione, ed il desiderio di mettere un intervallo tra le sollecitudini del trono e la morte. Tutta l'assemblea rimase attonita; alcuni si sciolsero in lagrime; giacchè Vittorio Amedeo II, temuto da tutti i suoi sudditi, era sinceramente amato dai più. Dopo avere in tale ultima scena del suo regno mostrato quel contegno solenne e fiero che gli era naturale, non usò più che affabilmente con tutti quelli che gli stavano intorno, parlando a tutti i grandi, e non ragionando con loro che della fedeltà cui dovevano al loro novello Re. Passato quindi nelle stanze della principessa di Piemonte, cui dichiarò regina, le presentò la contessa di s. Sebastiano, dicendole; a figlia mia, ti presento una dama che vuole sacrificarsi per me. Ti prego d'usare qualche riguardo verso di lei e verso la sua famiglia ». Vittorio Amedeo non riservò per sè che un'annua rendita di cinquanta mila scudi, e chiese che gli fossero contati di presente cento mila scudi per comprare il marchesato di Spigno a nome della sua nuova sposa, che d'allora in poi si chiamò marchesa di Spigno; e con essa, pochi giorni dopo l'atto d'abdicazione, partì per Ciamberì capitale della Savoja ch'egli aveva scelta per suo ritiro.

Fu detto che la rinunzia di Vittorio Amedeo fosse la conseguenza degl'imbarazzi, in cui l'aveva posto la sua fluttuante politica tra la Francia e l'Austria, e che essendosi troppo affrettato a conchiudere trattati, cui gli tornava a conto di non mandare ad effetto, rimase impigliato ne' suoi stessi lacci, nè potè uscire dall'imbroglio, nel quale erasi messo, fuorchè per tale disperata risoluzione. La falsità di siffatta asserzione venne in quest'ultimo tempo dimostrata da scrittori non meno gravi che bene informati. Oltrecchè di niente di simile avvi il benchè menomo indizio negli ori

ginali dispacci di Vittorio Amedeo a' suoi ambasciatori a Parigi, Vienna e Londra nell'epoca di cui si tratta. Tre Sovrani, in un intervallo di tempo piuttosto breve, avevano rinunziato la corona: Cristina, Casimiro e Filippo V. Per imitazione forse, o per sazietà di potere Vittorio Amedeo deliberò parimente di rinunziare quella corona reale che da sì lungo tempo era stata l'oggetto dell'ambizione della sua

casa.

LXIII.

Carlo Emanuele III:

rapido sguardo sopra i suoi fatti militari :

per lui Torino vieppiù cresce d'importanza e di prosperità.

Carlo Emanuele III era da cinque mesi entrato nel trentesimo anno dell'età sua, quando per la rinunzia del padre pervenne al trono, e ricevette i consueti giuramenti di fedeltà che gli prestarono i vassalli ed i deputati delle provincie. Finchè visse il suo maggior fratello Vittorio Amedeo Giuseppe, egli era stato dal padre tenuto in rigida soggezione e lontano affatto non solo dagli affari di stato, ma anche dagli studi che poteano formarlo alla scienza del governo: si volle per altro che si applicasse allo studio delle arti del disegno, ed a quegli esercizi che son detti cavallereschi. Giunto all'età di vent'anni, e divenuto successor presuntivo per la morte del primogenito principe di Piemonte, prese egli stesso questo titolo e sposò nel 1722 Ludovica di Baviera del ramo di Sulzbach, la quale morta in capo a pochi mesi, fu rimaritato nel 1723 a Polissena di Hassia Rheinsfeld Rottemburgo. Fu allora lasciato vivere a genio suo; ma non per ciò levossi dal di lui animo un timido rispetto che vi si era fissamente radicato per la durezza con cui era stato ne'suoi primi anni trattato. Degli affari di governo assai poco era messo a parte e ben di rado chiamato a consiglio. E forse per questi motivi egli conservò qualche ruggine. Ciò nondimeno era così riflessivo ed aveva acquistato un buon senso ed un discernimento che gli fecero conoscere gli uomini a cui poteva affidare il maneggio degli

affari importanti: lasciò in carica i ministri che aveva il suo padre: dei quali i più accreditati erano il marchese di Or mea, ministro e primo segretario di stato per gli affari interni ed esterni, ed il conte Caissotti di s. Vittoria, l'uno e l'altro non per titoli paterni od aviti, ma per i loro propri talenti di grado in grado saliti alle prime cariche, l'uno del ministero, l'altro della magistratura, che comprendeva gli affari giurisdizionali di vario genere e specialmente i contenziosi di materie ecclesiastiche. Di questo genere furono quelli che il re Carlo ebbe a trattare ne' primi mesi del suo governo. I tempi che corrono e le grandi difficoltà che di presente incontra il governo sardo a venire ad una soddisfaciente conchiusione delle sue trattative con Roma, ci persuadono essere opportuno di qui indicare almeno i sommi ostacoli ch'ebbe anche allora il sardo Re per ottenere un concordato colla Santa Sede.

Nel febbrajo del 1750, e poi nel luglio dello stesso anno, poco tempo innanzi che Vittorio Amedeo cedesse il trono al suo figliuolo, era morto Benedetto XIII e gli era succeduto il cardinale Lorenzo Corsini fiorentino, che prese il nome di Clemente XII. Restavano da effettuarsi alcuni affari relativi al concordato già conchiuso tra le due corti di Torino e di Roma. Era il Corsini imbevuto delle massime dominanti nella corte pontificia, ed inclinato al dispotismo tanto spirituale che temporale. E forse anche nudriva come fiorentino pensieri poco favorevoli alla corte di Torino poichè già da due secoli regnava manifesta rivalità tra le due case di Savoja e di Toscana. Certo è poi ch'egli non amava e poco stimava i tre cardinali Coscia, Fini e Lercari che sotto il suo predecessore avevano avuta grandissima parte nei negoziati coi ministri del re di Sardegna. Ora nei primi mesi dopo la sua esaltazione, Clemente XI veniva sollecitato ad ordinare la spedizione di alcuni affari relativi al suddetto concordato: uno di questi era la collazione dell'abbazia di s. Stefano d'Ivrea, a cui il Re aveva nominato il cardinale Ferrero. Il conte di Grosso, ministro della corte di Torino appresso la Santa Sede, succeduto al marchese d'Ormea, e lo stesso cardinal Ferrero che allora trovavasi in Roma, sollecitavano l'eseguimento di quanto già era stato

convenuto. Ma ecco che non solamente si va differendo la spedizione della bolla, ma si veggon sorgere dubbiezze e questioni sulla validità del concordato e trattasi niente meno che di annullarlo. Si minacciarono, si fulminarono scomuniche ai vassalli, ai giudici delle terre rilevanti dall'abbazia di san Benigno e dalla chiesa d'Asti, vietando loro, da parte del Papa, di prestar omaggio e fedeltà ai Reali magistrati, e di riconoscere altri superiori che quelli, i quali erano autorizzati da vescovi e dagli abati come signori temporali di que' feudi, o da' ministri pontificii, a cui pretendevasi devoluta l'autorità de' vescovi e degli abati in difetto di questi. D'altra parte diversi vescovi e principalmente quello di Pavia a sollecitazione di alcuni cardinali ricusavano di nominare vicari generali con giurisdizione inappellabile nelle terre delle loro diocesi, ch'erano soggette al dominio piemontese, siccome vi erano obbligati in virtù del ridetto concordato. Rinacquero pertanto le controversie agitate e terminate da Benedetto XIII; ed a gran rammarico del Re si dovette ripigliar l'esame delle scritture spettanti a tal causa sin dall'indulto di Nicolò V, prima base dei diritti che il nostro Sovrano pretendeva, e di varie bolle e varii brevi, decreti e rescritti dei Papi successori del predetto Nicolò, ed ordini od editti de' duchi di Savoja relativi a quel celebre indulto. Clemente XII destinò all'esame di questi documenti, e di quanto si era trattato e convenuto col suo precessore, cardinali e prelati sostenitori acerrimi delle pretensioni di Roma, ed avversari dichiarati dei ministri e delle buone ragioni del Re. Molte memorie ed allegazioni, ed anche grossi volumi uscirono dalle stampe di Torino e di Roma per tal controversia, che nel primo e nel secondo anno del pontificato di Clemente XII, e del regno di Carlo Emanuele fecero un gran rumore non solo in Italia, ma in tutta Europa.

Se non che dal principio del 1731 altri evenimenti di maggiore importanza diedero assai maggiore sollecitudine al re Carlo Emanuele III. Questi nella primavera del 1730 era andato in Savoja a visitare il padre, e consigliarsi con lui intorno alle pubbliche occorrenze europee. Vi tornò poi colla regina Elisabetta sua seconda sposa, e colla corte.

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