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Questa seconda visita fu breve. Carlo Emanuele trovò il genitore pensieroso ed imbarazzato: attribui tale cangiamento alle conseguenze di un assalto d'apoplessia sofferto recentemente dal vecchio. Lo lasciò dopo tre giorni, e si condusse colla regina alle acque di Evians, ove divisava di passare qualche settimana. Vittorio, che era uno di quegli uomini che nelle grandi agitazioni anelano al riposo e si nojano poi presto del peso dell'ozio, concepì il pensiero di nuovamente impossessarsi del governo, a ciò eccitato eziandio dalla marchesa di Spigno donna sopra modo ambiziosa: laonde prese subitamente la risoluzione, profittando dell'assenza del giovine Re, e di prevenirlo a Torino e di rimet tersi in possesso del trono. Nell'istante in cui era per partir di soppiatto, un giovane ecclesiastico nominato Michon, che aveva per accidente udito un colloquio tra il re Vittorio e la marchesa, erasi con somma diligenza recato ad informarne il re Carlo ad Evians. Un'ora dopo il ricevimento dell'avviso il giovane Monarca monta a cavallo, accompagnato da un seguito poco numeroso, valica il piccolo s. Bernardo, e giunge a Torino nel giorno appunto in cui suo padre smontava al palazzo di Rivoli. Vittorio sentì dai poggi di Avigliana il cannone che annunziava l'arrivo di suo figlio, e ne fu vivamente turbato. La domane Carlo Emanuele si recò da lui. Tale abboccamento dei due Re fu imbarazzato, anzi un po' tristo d'ambe le parti. Vittorio Amedeo essendosi lagnato che l'aria della Savoja era contraria alla sua salute, immantinente suo figlio ordinò che il palazzo di Moncalieri fosse apprestato per riceverlo. Ivi tutta la corte andò, per ordine del re Carlo, a fargli omaggio; ma ei fece nel tempo stesso spiare le azioni ed i passi tutti di suo padre, ed in breve si venne in chiaro che questi era agitato da un pro-fondo disegno; e diffatto volendo conoscere le disposizioni dei principali della corte, Vittorio giunse perfino a domandare al ministro del Borgo l'atto della sua rinunzia, incaricandolo di notificare a suo figlio la sua determinazione di ripigliare le redini del governo. Il ministro confuso e perplesso, non osando esporsi con un rifiuto allo sdegno del vecchio Monarca, promise di portargli l'atto richiesto nel dì susseguente. Ma appena ei fu partito, Vittorio si pentì

d'essersi aperto in siffatta guisa. A mezzanotte, presa repentinamente un'altra risoluzione, monta a cavallo, ed accompagnato da un solo domestico va a presentarsi alla porta della cittadella e vuole che gli venga aperta. Il barone di s. Remy governatore nega assolutamente d'introdurlo. Deluso nella sua aspettativa, Vittorio ritorna a Moncalieri con grande dispetto, mentre appunto, in seguito alla dichiarazione del marchese del Borgo, il Re aduna nel suo gabinetto il gran cancelliere, l'arcivescovo, i ministri di Stato, il primo presidente del senato e li richiede del loro avviso. Essi si riguardano l'un l'altro, e niuno ardisce parlare; ma l'arcivescovo Gattinara, che era stato indettato per tempo. dall'Ormea, di cui temeva, come tutti temevano la prepotenza ed i raggiri, prese la parola, e con un discorso poco men che politico esortò il Re a rimanere sul trono: allora gli altri a quel consiglio intervenuti significarono di essere dello stesso parere, e che S. M. esporrebbe la pubblica tranquillità a pericoli evidenti, discendendo dal trono per lasciarvi risalire il padre; oltre a ciò si delibera unanimemente esser d'uopo, d'assicurarsi della persona di Vittorio Amedeo: il Re sottoscrive l'ordine, ed il marchese d'Ormea subitamente si avvia per metterlo ad effetto. Lo precede una compagnia di granatieri comandata dal conte della Perosa; altre genti investono il palazzo di Moncalieri: salgono la scalinata e s'impadroniscono di tutti i famigli. Il marchese d'Ormea indirizzatore di tutto il moto si pose a guardia, siccome quegli che tutti i penetrali del castello conoscea molto bene, alla scaletta segreta verso tramontana, acciocchè, levato il rumore, Vittorio per quel nascosto andito salvare non si potesse: a questo fine egli aveva con sè un buon drappello di militi. I soldati condotti dal conte della Perosa penetrano nella camera dove il Re stava a letto con la marchesa di Spigno, la quale lanciasi mezzo nuda verso una porta per fuggire: vien presa e cacciata in una carrozza che prende a galoppo la strada del castello di Ceva, scortata da cinquanta dragoni. Tutto il romore che vi si fece non potè svegliare il re Vittorio, di cui il sonno era abitualmente quasi letargico. Il cavaliere di Solaro prende la di lui spada che era sopra una tavola, mentre il conte della

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Perosa aprendo le cortine del letto, e svegliatolo non senza fatica, gli dichiara che ha l'ordine di arrestarlo, e gli presenta tale ordine sottoscritto di mano di suo figlio. Il vecchio in furia svilaneggia quelli che gli stanno d'intorno, nega di vestirsi: vien preso a forza e portato così ravvolto nelle coperte sino alla carrozza che lo attendeva nella corte, è ivi posto in mezzo ad un drappello di uffiziali e di soldati. Vedendo il vecchio loro Sovrano caduto in tale avvilimento, questi soldati incominciarono a mormorare ed a fremere, quando il conte della Perosa esclamò: « da parte ■ del Re silenzio, sotto pena di morte. Cessano le grida; Vittorio riconosce nella corte uno dei reggimenti di dragoni che s'era altra volta segnalato sotto gli occhi suoi; vuole arringarlo: uno strepito di tamburi soffoca la di lui voce. Viene non senza fatica posto in carrozza, e le milizie formando all'intorno una specie di battaglione quadrato, lentamente s'avviano verso il palazzo di Rivoli. L'augusto prigioniero visse ivi più mesi, custodito con tanto rigore che da principio non sarebbesi potuto far peggio col più vile sicario. Gli accessi di collera nei quali diede nei primi giorni l'infelice monarca fecero temere per la sua vita. Vedendosi egli ridotto a così misera condizione, si mostrò tanto smanioso che con un colpo di pugno ruppe una tavola di porfido, la quale all'epoca dell'occupazione francese venne trasportata a Parigi, dove tuttora si conserva. Quel castello, in cui fu rinchiuso Vittorio, aveva preso in poche ore l'aspetto di un orrido carcere: alle finestre gli furono poste le ferrate, ed alle porte le sbarre: quei pochi che furono destinati a servire il real prigioniero, ebbero l'ordine severo di non rispondere alle sue domande se non con un profondo silenzio: cosa da mettere lo sdegno anche nel cuore di un rigido anacoreta: non gli venne conceduto di corrispondere, scrivendo, con chicchefosse e nè anco di sollevarsi l'animo colla lettura di gazzette. Una guardia di sei mila uomini armati vegliava alle porte di quella regia villa, ch'era divenuta una tetra prigione; la quale guardia doveva essere cangiata ogni ventiquattr'ore.

marchese d'Ormea, perchè si spargesse nel volgo che si usavano tali rigori inverso Vittorio Amedeo in seguito

ad una congiura ordita da esso Re, dalla marchesa di Spigno, dai più prossimi parenti di lei, e dagli amici più intimi dell'infelice Sovrano, ne fece arrestare, e sostenere in carcere parecchi; tra i quali dobbiam noverare il P. abate Andromille confessore del vecchio Re, il cav. Lanfranchi segretario de' suoi comandamenti ed il marchese di Rivarolo; ma tosto che fu cosa accertata che non vi avevano avuta alcuna parte, furono rimessi in libertà.

I nostri scrittori cercano per lo più di scusare Carlo Emanuele della condotta ch'ei tenne allora verso il suo genitore; ed anzi alcuni di loro non dubitano di dargliene lodi: noi non possiamo fare altrettanto; chè, sempre quando ci viene in mente come Vittorio Amedeo II crebbe il lustro di sua casa, le apportò la reale corona ch'essa da tanto tempo ambiva, le aggrandi i dominii, e cercò con ogni mezzo di rendere fortunati i popoli a lui soggetti, ed ebbe, a malgrado di tutto ciò, a terminare così miseramente i suoi giorni, ci si risveglia nell'animo un vivo sentimento di pietà non disgiunta da indegnazione; sentimento che si destò all'epoca della sua dura prigionia nel cuore de' buoni torinesi, di tutti gli altri suoi sudditi e d'ogni bennata persona fuori di questi R. stati: ne sentirono dolore e sdegno tutti i potentati d'Europa, che chiesero con istanze la pronta liberazione dell'augusto prigioniero, e massimamente il re di Francia, il quale a siffatta domanda unì la minaccia di spedire in Piemonte venticinque mila uomini per farlo uscir libero. Ma l'astuto marchese d'Ormea, che ben sapeva di dover scendere dal seggio ministeriale, qualora Vittorio Amedeo avesse potuto anche indirettamente influire sul governo dello Stato, si affrettò a scrivere a tutte le corti straniere che Vittorio Amedeo era divenuto pazzo ed anche furioso e convenivano per la pubblica tranquillità le misure che si erano prese. Di ciò persuasi, o non persuasi i potentati europei cessarono da ulteriori doglianze a questo riguardo; e l'infelice Re, privo d'ogni conforto, continuò ancora per assai tempo a gemere nella sua cattività. L'Ormea, novello Argo, aveva cent'occhi per esplorare se alcuno in questa capitale desse segni di biasimare l'ingratitudine sua verso il Monarca, che lo aveva tolto dall'oscurità per riporlo nelle più

eminenti cariche dello stato; ma i torinesi che ne conoscevano l'indole volpina e vendicativa, premendo nel seno il proprio dolore tacevano; ed il loro assoluto silenzio su questo proposito, dice Marco Foscarini, ambasciatore della repubblica di Venezia presso la corte di Torino, durò quanto la vita di Carlo Emmanuele III.

Con sì eccessivo rigore, diciam noi, o si volle impedire che Vittorio facesse un nuovo tentativo, o si giudicò di punirlo di quello che aveva già fatto: nel primo caso avrebbe bastato il dichiarargli ch'egli era agli arresti nel castello di Moncalieri, e tenerlo intanto sotto buona guardia, trattandolo per altro con tutta la cortesia ed umanità: sarebbe inoltre stato sufficiente a conseguire lo scopo di farnelo ravvedere il possente mezzo delle persuasioni per opera d'illustri uomini, e massime di dotti e saggi ecclesiastici, a cui egli professava moltissima stima e venerazione: e poi, vaglia il vero, tentativi di tal sorta non si fanno due volte da un principe di elevato animo e di grande sperienza qual era Vittorio. O veramente non si ebbe che la volontà di punirlo, e noi avvisiamo che il modo a questo fine adoperato fu aspro, crudo, e poco men che barbaro. L'Ormea ebbe in animo di tribolarlo, angustiarlo, abbreviargli la vita, ed ottenne il biasimevole intento. Ed invero Vittorio Amedeo si trovò fra non molto in così misero stato di salute e in tanto abbattimento, che egli stesso vedeva appressarsi il termine de' suoi giorni. Si fu allora che la vigilanza de' suoi custodi fu meno severa; e dietro la domanda fattane da lui, venne ricondotto al palazzo di Moncalieri: finalmente si tranquillò sul suo destino, ma rimase silenzioso e triste; alcune persone degne di sua confidenza furono ammesse a tenergli compagnia, e gli venne restituita la marchesa di Spigno: gli si somministrarono libri; ma non gli era permessa la lettura delle gazzette. Vittorio Amedeo non rivide mai suo figlio. Mori a Moncalieri nell'ultimo giorno d'ottobre del 1732, con grandi sentimenti di cristiana pietà. Sua moglie si chiuse in un convento di religiose a Carignano. Egli aveva sortito dalla natura nel più alto grado l'amore dell'ordine. Essenzialmente economo, mise in voga per lungo tempo l'economia in tutte le classi della nazione. Una delle sue massime politiche era

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