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della sua confederata e trarre a compimento la conquista dell'Italia. Avendo quell'esercito con parecchi combattimenti superato gli Appennini, ed essendo giunto a tramezzar nel centro l'oste repubblicana sulla spiaggia del mare, parte di esso volle spingersi all'inseguimento dell'ala sinistra nemica sino al margine del Varo e parte cinse l'altra di assedio in Genova; ma nel tempo di queste luminose belliche fazioni oltre gli Appennini sul lido della marina, estollevasi al rovescio delle alpi una nube, che dovea quanto prima infoscarne lo splendore.

Bonaparte che vivendo mal pago del Direttorio, da cui era lasciato senza soccorsi in Egitto, se ne n'era ritornato speditamente in Francia ed era giunto a Parigi il 16 d'ottobre del 1799. Vedendo che il governo cadeva ogni di più nel disprezzo e che una inquietudine generale agitava tutti gli spiriti, cacciò a punta di bajonette i consigli legislativi, cacciò il direttorio, e divenne un vero dittatore sotto il titolo modesto di primo Console. Questa rivoluzione fu operata nei giorni 9 e 10 di novembre di quello stesso anno. Bonaparte volendo consolidare il suo potere in Francia mercè di qualche splendido trionfo al di fuori, concepì subito il disegno di riconquistare l'Italia, ch'era stata il primo teatro della sua gloria. Adunare un esercito nelle pianure di Digione; condurlo pel s. Bernardo attraverso delle nevi e dei precipizii; rinnovare i prodigi di Annibale al passag→ gio delle alpi; superare coll'astuzia e coll'ardimento il passo di Bard; rovesciare gli ostacoli incontrati alla Chiusella; occupare le città della Lombardia; far risorgere la repubblica Cisalpina; passare il Po, marciare alla volta di Genova non fu in sostanza pel primo Console che un felice preludio alla memoranda battaglia di Marengo, di cui abbiam dato la descrizione con quella maggiore esattezza, che per noi si potè, nell'articolo ragguardante a questo villaggio.

LXXVIII.

Torino ricade in potere de' francesi :
di bel nuovo è sede di un governo provvisorio:
sua triste condizione a quel tempo.

Colla vittoria di Marengo Bonaparte indusse l'austriaco generale Melas ad accettare gli accordi ch'egli gli propose; cioè disgombrare affatto l'alta Italia e le rocche di Genova, Savona, Ceva, Alessandria, Tortona, Torino, Cuneo, e di ridursi oltre il Mincio. Il governo piemontese, il quale allorchè le germaniche truppe convennero in Alessandria, aveva dovuto condurvisi anch'esso da Torino, veggendo dalla loro capitolazione ricaduto il Piemonte sotto la podestà dei repubblicani, ordinò alle restanti soldatesche subalpine di snodarsi e far ritorno in seno alle loro famiglie. Bonaparte creò in Milano una consulta ed una commissione di governo. Al comando supremo dell'esercito che egli avea condotto in Italia, destinò il generale Massena, lasciando il Petiet come ministro straordinario di Francia in Lombardia. Nei primi giorni di giugno, preceduto dalla guardia consolare, sen ritornava alla capitale della Francia. Passò per Torino: alloggiò in cittadella: non si lasciò vedere, non volendo lasciarsi tirare alle promesse per rispetto dello `Czar, che sempre favoriva il re di Sardegna. Anzi si accerta che sebbene avesse l'animo molto alieno, ciò non di meno, dopo la vittoria di Marengo, aveva offerto l'antico seggio a Carlo Emanuele, purchè nuovamente rinunziasse alla Savoja ed alla contea di Nizza. Tornò altresì sull'antico pensiero, per potersi serbare il Piemonte, che appetiva con grandissimo desiderio, di dare al Re la cisalpina, sì veramente che rinunziasse al Piemonte. Le quali proposte non furono accettate da Carlo Emanuele e per motivi di religione, e per non voler conchiudere senza il consentimento de' suoi alleati e massimamente per non dare appicco all'Austria, nel caso che le cose di Francia nuovamente sinistrassero, acciocchè ella s'impadronisse della terra pedemontana e se la ritenesse. Non ostante le proferte ed i negoziati, Bonaparte pensò

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á creare in Torino una consulta ed una commissione di governo pel Piemonte; intanto destinovvi un ministro straordinario che a nome della repubblica francese qui presiedesse alla commissione di governo ed alla consulta legislativa, lasciando così alla nazion piemontese un'apparenza di stato libero ed indipendente. Quell'incarico fu da lui affidato al generale Jourdan, che non aveva mai avuto parte in ciò ch'era avvenuto in Torino di dispiacevole ai buoni, e godeva la riputazione di personaggio moderato ed amante delF'ordine. Intanto Alessandro Berthier, secondo il comando ricevuto dal primo console, compose in questa città la commissione di governo, scegliendo a formarla sette cospicui uomini che godevano molta stima sì per la loro dottrina ed integrità, come per insigni cariche da loro sostenute sotto il regio governo: furono questi Avogadro già presidente del senato di Torino, Baudisson già professore di diritto canonico, Bottone già intendente generale, Brayda già avvocato dei poveri, Cavalli conte, Galli già presidente della camera de' conti, Rocci già segretario nel ministero per gli affari esterni. I generali Dupont e Thurò installarono quella commissione di provvisorio governo; e quasi ad un tempo secondo gli ordini ricevuti dal primo console, trovandosi ancora assente da Torino il generale Jourdan, formarono la consulta legislativa di trenta membri scelti da diverse classi di cittadini e di diverse provincie. A reggere la segreteria di guerra fu destinato il Pavetti, istruttissimo delle cose militari: Prina ebbe la carica d'intendente generale delle finanze: Ponte di Lombriasco fu trascelto a ministro della polizia generale. L'amministrazione civica di Torino, detta in allora Municipalità, non cessò di avere qualche ingerenza nei pubblici affari.

Quasi pel corso di due mesi durò questo governo protetto ed essenzialmente diretto dal generale Massena. Verso la metà di agosto del 1800 giunse finalmente a Torino il generale Jourdan, e presentato dal Dupont alla commissione del governo, ed alla consulta legislativa, prese la suprema amministrazione degli affari.

Quanto fosse infelice a quel tempo la condizione di Torino, ed anzi di tutto il paese di cui ella è capitale, ne lo

dice il Botta: vide egli stesso le cose da lui narrate a questo riguardo: giova pertanto qui riferirne le gravi parole. Una estrema carestia, un rapir di soldati all'epoca dei confederati avevano messo il nostro paese in estrema penuria. Nè erano mancate le angherie e le soperchierie e le ingordigie dei commissari imperiali; la insolenza era stata minore, ma la rapacità uguale. In Torino, in tutto il Piemonte non sapevasi più nè che cosa sperare, nè che cosa temere, nè che cosa desiderare, stante che i cambiamenti di dominio non producevano un cambiamento di fortuna. Nè questa era la somma delle triste fortune; perchè i biglietti di credito, che sempre più scapitavano, lunga e luttuosa peste del nostro paese, avevano posto in confusione tutti gli averi; ogni civile faccenda si fermava: il prezzo dei viveri eccessivò: i poveri, che non avevano biglietti, perchè i minori erano di venti lire, smoderatamente pativano. In fine tanto sopravanzò questo male, che fu forza, venirne all'ordinare, che non si spendessero più che a valor di commercio, e si pubblicarono le scale del cambio. Ma le piaghe erano fatte, rimaneva la coda dei contratti anteriori. Penò molto la Consulta, quantunque in lei abbondassero gli avvocati dotti e sottili, ad assestare questa faccenda, e quando si assestò, nissuno contento, ancorchè la legge fosse giusta. Questa fu gran radice di mali umori. Ne' gran momenti di sventura non mancava il peso gravissimo del dover mantenere i soldati di Francia, sì quelli che passavano, come quelli che stanziavano, peso da non poter essere sopportato dalle finanze piemontesi. Voleva Massena, generalissimo in Italia, che il Piemonte gli desse per sostentamento dei soldati un milione al mese e mantenesse i presidii. Poi successe Brune a Massena; accordossi, che col milione mensuale le casse francesi mantenessero esse; ma ecco pagarsi il milione, ed i soldati non mantenersi: era il nostro infelice paese obbligato a supplire, perchè se non si dava loro il necessario, ei se lo prendevano da sè. Volle Jourdan, che buono era e dabbene, rimediare, ma i trappolatori ne sapevano più di lui; non se ne poteva dar pace; non vi era rimedio. Si aggiungevano i comandamenti fantastici; perchè ora si voleva che una subalpina fortezza si demolisse a spese del Piemonte,

ed ora che la medesima si riattasse: ora si addomandavano i piombi della cupola di Soperga, il che avrebbe fatto rovinar l'edifizio per le acque; ed ora si voleva che si demolissero i bastioni, che sopportano il giardino del Re, opera inutile, perchè la città era già tutto all'intorno smantellata. Se non era la costanza di chi governava ad opporvisi, Soperga ed il giardino, gradito passeggio dei torinesi, perivano. Chi domandava denari pel vivere dei soldati, chi pel vestito, chi per gli ospedali, chi per le artiglierie, chi pei passi, chi per le stanze: eran le richieste capricciose, i consumi eccessivi, le finanze impotenti: ogni cosa in travaglio e confusione.

Altri tormenti oltre i raccontati, travagliavano i piemontesi, e rendevano impossibile ogni buon governo: questi erano la incertezza sulle sorti future del nostro paese. Sapevansi le offerte fatte dal Consolo al Re: ciò faceva camminar a ritroso i partigiani regi, a rilento i repubblicani: quelli speravano, questi temevano: tra l'ordinar peritoso e l'obbedir lento nasceva l'anarchia. Il Console non si era voluto scuoprire interrogato, si ravviluppavà nelle ambagi: alcuni dagli stimoli da lui dati ai repubblicani piemontesi acciò si mostrassero, argomentavano, ch'ei non volesse più dare il Piemonte al Re; alcuni altri da questo stesso giudicavano che il volesse dare. In Torino i democrati insultavano gli aristocrati; gli aristocrati si ridevano dei democrati; i primi speravano la repubblica, i secondi si tenevano. sicuri del regno. Questi prevale vano; perchè non pochi tra i capi venuti di Francia per ingerirsi, non senza cagione, nelle faccende dell'amministrazione militare, e che se ne vivevano alle mense dei magnati, o per adulazione o per certo vezzo di voler comparire dell'antico tempo, laceravano continuamente quei che servivano allo stato nuovo. Chi si dava per antico conte, chi per antico marchese, chi per lo meno per visconte, o per barone: ne s'accorgevano in quanto disprezzo venissero essi medesimi appresso ai nobili torinesi, tanto acuti ed esperti conoscitori della natura altrui. Intanto questi discorsi toglievano forza al governo stabilito in Torino. Quelli stessi che più da lui domandavano, il riducevano alla condizione di poter men dare. Era in

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