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questo procedere leggerezza ed ingratitudine; ma non disamorevolezza od odio, perchè non erano capaci nè di amare, nè di odiare. lo non so, continua il Botta, se in mezzo a cose tanto gravi, mi debba parlare delle pazzie dei democrati, che non vedevano in qual trappola fossero. Pure non tacerò ch'era tornato in Torino il Ranza. Le cose che questi diceva e che stanipava, non son da domandare. Ora scriveva contro i preti, ora contro i frati, ora contro gli aristocrati, ora contro i democrati, ora contro il governo, ora contro i governati, e fece un giorno, traendo il popolo a folla, un falò in piazza castello per abbruciarvi lo scritto di un frate suo avversario. Buttava nel pubblico ogni giorno sua gazzetta, ed ogni giorno ancora appiccava suoi cedolon i alle mura egli stesso; e quando si sentiva voce che era Ranza, il popolo correva a calca per vedere. Incominciò a dire che vivevano in Torino ed in tutto il Piemonte troppi aristocrati: ripreso, venne in sul dire che tutti erano aristocrati. Il governo il volle frenare; ma invano, perchè tornò sul dire, che tutti erano aristocrati e quei del governo i primi. Basta, per lo men reo partito, ei fu lasciato dire. Ma le opinioni si pervertivano; la maldicenza trovava forte corrispondenza nell'invidia e non si poteva più governare. lo, conchiude il Botta, ho voluto parlare e forse il feci troppo più lungamente che si convenisse, di questo Ranza ma il volli fare, perchè mi sembra, che di questi Ranza ne sieno molti in Europa, e molti più in quei paesi di lei che sono, o si credono liberi. E noi volentieri facciam eco a quest' osservazione del celebre scrittore.

Lasciata incerta la sorte di Torino, e del paese di cui essa è capitale, sorgevano e s'inviperivano le sette. Chi voleva essere francese, chi italiano, chi piemontese. Gli amici si odiavano, i nemici si accordavano, nissun nervo d'opinione. Accrebbe l'incertezza ed i mali umori un decreto del Consolo, che fissò i confini del Piemonte e della Lombardia al corso del fiume Sesia. All'epoca di quel decreto, che è del 20 fruttidoro anno VIII (1800), nè tampoco il 19 vendemmiajo seguente, quando il generale Jourdan lo partecipò ufficialmente alla commissione esecutiva, la sorte del Piemonte non era ancora decisa. Speravasi tuttavia da molti

che il nostro paese sarebbe costituito in repubblica indipendente, come il ligure ed il cisalpino. All'annunzio di quel decreto consolare, che attribuendo alla cisalpina le provincie situate alla sinistra del Sesia, dichiarava espressamente. quella repubblica indipendente, e non faceva parola che indicasse una simile disposizione riguardo al Piemonte, se ne attristarono i membri della commissione esecutiva surrogata, alla commissione di governo; se ne attristarono eziandio i quattro consiglieri del governo, Galli, Brayda, Costa e Giulio. Bossi il più animoso dei membri della commissione diresse al ministro francese generale. Jourdan, un'assai lunga reclamazione, chiedendo con viva istanza che si decidesse il destino della patria, e che intanto fossero per onor loro proprio, esso ed i suoi colleghi dispensati di dar opera allo smembramento prescritto. Questa esenzione o dispensa si ottenne; ma il decreto che separava le tre provincie dal Piemonte, ebbe il suo effetto prontamente, perchè troppo giovava alla repubblica prediletta del primo console. Ciò che non vuolsi tacere è che il Prina novarese, il quale era allora ministro a Torino, fu il primo suggeritore e confor-, tatore di tale smembramento della sua patria; locchè dimostra viemmeglio quale sincerità e quale lealtà fosse in. quei tempi. Bonaparte, che sapeva le proteste fatte dal torinese governo, si maravigliava che si sperasse, che si temesse, che si protestasse. Pure non si scuopriva; i timori, le sette e le angustie del governo crescevano. Questo paese era segno ad ogni più fiera tempesta.

Fra sì funeste intemperie la commissione esecutiva, composta di tre ragguardevolissimi personaggi, Bossi, Botta e Giulio, ebbe un consolatorio pensiero, e questo fu di stanziar beni di una valuta di cinquecento mila franchi all'anno a benefizio della torinese università degli studii, dell'accademia. delle scienze, del collegio, e di altre dipendenze, ordine veramente benefico e magnifico, di cui solo trovaronsi modelli negli stati uniti d'America per munificenza del congresso, ed in Polonia.

Fu questo conforto piccolo pei tempi, perchè le disgrazie sormontavano. Continuossi a vivere in Torino e nel Piemonte in modo disordinato, discorde, servile, finchè venne il destro

a Bonaparte d'incamminare il nostro pacse a più certo destino.

Intanto la fortuna preparava a Bonaparte il più efficace fondamento che potesse desiderare a' suoi disegni, fondamento più possente delle armi, più possente della fama. Pochi giorni dopo la conchiusione de' famosi comizii di Lione, che sanzionarono la costituzione della repubblica cisalpina é ne elessero il presidente, Bonaparte fu dichiarato console per dieci anni, e poco stante console perpetuo della repubblica francese. Sapendo egli ottimamente che le anime pie si dolevano in Francia dei gravissimi danni che avea sofferto la religione cattolica, e mostravano un vivissimo desiderio di veder rialzati gli altari; e veggendo massimamente che si sarebbe affezionati tutti i buoni con questa generosa impresa, incominciava le trattative col Papa; ed a malgrado delle gravissime difficoltà che insorgevano, si fermava alli 15 di luglio del 1801 un concordato per la parte del sommo pontefice Pio VII dal cardinale Consalvi, da Giuseppe Spina arcivescovo di Corinto e dal P. Caselli; per la parte del console da Giuseppe Bonaparte, da Cretet consigliere di stato, e dal paroco Bernier. Pio VII s'indusse poi a ratificare quel concordato, per cui risorse in Francia la religione cattolica, ed it console lo pubblicava nel giorno di Pasqua dell'anno 1802. H console ottenne quindi dal Papa una bolla che autorizzò il cardinale Caprara a riordinare e riformar le diocesi del Piemonte; e volendosi per tale effetto sopprimere nove vescovadi e sei abazie con i loro capitoli canonicali, fu d'uopo conseguire l'assenso dei prelati che attualmente n'erano investiti, come appunto già erasi fatto in Francia. Le sorti del Piemonte erano tuttora incerte, Bonaparte avea cupidigia di serbare questo paese per se; ma indugiava al risolversi, ed occultava cautamente le sue intenzioni. Avea anzi veduto vòlentieri il marchese di s. Marzano mandato a Parigi per negoziare della restituzione del nostro paese. Le incertezze e le ambagi del console, le offerte palesi fatte al Re dopo la vittoria di Marengo, e la presenza del marchese s. Marzano a Parigi tenevano in pendente l'opinione dei torinesi e degli altri subalpini, e toglievano ogni modo di buon governo in questa capitale. Ognuno guardava verso Firenze, Roma o

Napoli, dove abitava, ora in questa, ora in quella il re Carlo Emanuele. Appresso lui vivevano alcuni nobili torinesi o dei più ricchi, o de' più accorti. Si aggiungeva Vittorio Alfieri, uomo di quell'ingegno smisurato, che ognuno sa, padre della tragedia italiana, e da essere eternamente venerato da chi venera le italiane muse. Avendo egli odiato e maledetto i Re quando erano in fiore, si era poi messo ad odiare e a maledire le repubbliche, quando erano venute in potenza, ciò, come dice un sommo letterato, meno forse pel male che in quelli od in queste era, che pel genio in lui natuFale di andar sempre a ritroso. Adunque in Firenze standosene, continuamente fulminava contro la condizione delle cose piemontesi. L'autorità di un uomo così grande operava con efficacia massimamente in Torino, e vieppiù qui rompeva ogni nervo del governo. Sorsero le sorti fatte più certe della Cisalpina e della Liguria, mentre si tacquero ancora quelle della nostra contrada; onde in Torino chi sperava pel Re ebbe cagione di più sperare, chi temeva ebbe motivo di più temere. In tali intricate occorrenze avvenne di verso borea un caso di grandissima importanza, perchè nella notte del 25 marzo 1801 morì di morte violenta Paolo, imperatore di Russia, il quale avea sempre voluto che il sardo monarca ritornasse alla sua sede di Torino: della morte di Paolo non sì tosto fu avvisato il console, che trovandosi libero dalle istanze di lui, e volendo preoccupare il passo alle intenzioni di Alessandro suo figliuolo e successore, fece un decreto, il quale, sebbene ancora non importasse l'unione definitiva del Piemonte alla Francia, accennava però manifestamente che sua volontà fosse che l'unione si effettuasse: il decreto con· stituiva il nostro paese, secondo gli ordini di Francia. Perchè poi non sembrasse all'imperatore Alessandro che il console della Francia troppo audacemente avesse operato nel prendere, prima di consigliarsi con lui, una deliberazione di tanta importanza, diede al decreto una data anteriore al giorno in cui gli pervennero le novelle della morte di Paolo. Sperava che Alessandro, trovata all'assunzione sua la cosa fatta, non difficilmente sarebbe per consentirvi.

Importava il decreto dato ai 2 d'aprile del 1801, che il Piemonte formerebbe una divisione militare della Francia; 55 Dizion, Geogr. ec. Vol. XXII.

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che fosse partito in sei dipartimenti, che le leggi della repubblica rispetto agli ordini amministrativi e giudiciali vi si pubblicassero ed eseguissero, che le casse al 1.o di giugno fossero comuni, che un amministrator generale con un consiglio di sei reggesse; che Jourdan rimanesse a Torino in qualità di amministrator generale. Si crearono sei dipartimenti, del Po con Torino, di Marengo con Alessandria, del Tanaro con Asti, del Sesía con Vercelli, della Dora con Ivrea, dello Stura con Cuneo.

Frattanto il re Carlo Emanuele IV, dopo la pubblicazione del trattato d'Amiens, vedendo che i suoi alleati non avevano fatto alcuna cosa in suo vantaggio, e perdendo ogni speranza di ritornare alla sua sede di Torino, o di avere in compenso del Piemonte qualche altro stato nel continente d'Italia, risolvè di deporre una corona che eragli stata cagione di tante amarezze, e con pubblico atto rinunziò ogni suo dominio, ogni diritto, ogni pretesa a Vittorio Emanuele duca d'Aosta, il maggiore de' suoi fratelli allora viventi, non riserbandosi che una pensione di cento cinquanta mila lire, col titolo di Re.

LXXIX.

Va da Torino a Parigi una deputazione per ringraziar Bonaparte :
egli spedisce subito alla nostra capitale commissarii parigini. Menou :
come ei tratta i nobili torinesi, ed essi corteggiano, lui.

Il Jourdan amministrator generale, appena pubblicato il decreto del 2 d'aprile, mandò a Parigi deputati per ringraziare e per promettere obbedienza: furono questi, Bossi uno dei consiglieri, Baudisson professore della torinese università, i nobili d'Harcourt, Alfieri di Sostegno, Della Rovere e Serra. Vennero accolti molto volontieri, massime i nobili, perchè il console gli voleva allettare. Solo Fouché, ministro di polizia generale, trascorse in presenza loro con parole eccessive contro i preti e contro gli aristocrati; il che fe' ridere e stringere nelle spalle i deputati.

Intanto Bonaparte, fatto sicuro dell'amicizia della Russia, incamminavasi al dominio del mondo. Cominciando dal Pie

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