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monte, che stimava esser necessario congiungersi per avere, senza impedimenti la signoria d'Italia, comandava che il ri detto decreto dei 2 d'aprile fosse prontamente in ogni sua, parte mandato ad effetto. L'Austria impotente per le disgrazie, l'Inghilterra per la lontananza nè consentirono, nè con-, trastarono, persuase oramai, che se non arrivava qualche improvviso accidente che le ajutasse, indarno erano i consigli umani.

Arrivarono a Torino i commissari parigini ad ordinar lo stato, chi per le finanze, chi pel fisco, chi pel lotto; chi per le poste, chi per gli studi, chi pei giudizi. L'antica semplicità degli ordini amministrativi del nostro paese degenerava in forme complicate, i nuovi costarono più cari a molti doppi. Bene si migliorarono gli ordini giudiziali sì civili che criminali per l'acquistata prontezza, immenso benefizio, che consolava della perduta indipendenza. Voleva il console ridurre in sostanza lo stato alla forma di monarchia: repubblicani di Francia, eccettuati i più furibondi, che avea, confinati in carcere o banditi in lidi lontani, il secondavano, nè egli era avaro verso di loro di carezze e di ricchezze. Quanto ai repubblicani del nostro paese, due mezzi gli si paravano davanti o di vezzeggiarli, o di spegnerli, non già coll'ammazzarli, perciocchè sapeva che l'età non comportava. sangue come la borgiesca, ma col torre ad essi l'autorità e la riputazione. Elesse quest'ultimo. Tolse adunque le cariche a parecchi, ed operò che il nome e la fama ne fossero straziati e vilipesi. Rimaneva in Torino Jourdan, ch'era stimato repubblicano. Deliberò di togliere anche questo capo ai torinesi che amavano il repubblicano sistema, quantunque ei si fosse portato molto rimessamente con loro: partì Jourdan lodato dal consolo, desiderato dai piemontesi. Arrivò Menou in Torino in luogo di Jourdan. Molte sciocchezze e molti arbitrii, di cui non occorre parlare, qui fece Menou. Nè si sa comprendere il consiglio di Bonaparte che per instaurare, come diceva, gli ordini della monarchia in Piemonte, vi mandasse un Menou di Francia, e per instaurarvi come anche diceva la religione di Cristo, vi mandasse un generale, che, come correva voce, avea in Egitto abbracciato il maomettismo. Forse voleva atterrire con qualche

odore di Turchia; ma è un pessimo modo di terrore it rendersi ridicolo. Accidente strano e non più udito era quello di vedere le carezze che Menou faceva ai nobili torinesi, e quelle ch'essi facevano a lui, dal canto suo umili e dimesse, dal canto loro astute e superbe, ed ei se le godeva ed erane contentissimo. Diceva che Bonaparte il voleva; il che era vero; ma il console poteva dargli l'autorità, non la discrezione, e Menou non ne aveva. In quei giorni il giardino del re di Sardegna si vide diformato da una succida baracca ad uso di una turca. A questo modo incominciava it promesso legale dominio nel generoso e sfortunato Piemonte.

Bonaparte vieppiù rivolgeva i suoi pensieri al trono. Aveva restituito a Genova il suo doge, perchè l'aristocrazia si trovasse in lotta colla democrazia. Erigeva la Toscana in regno d'Etruria a favore del giovine duca di Parma, genero del re di Spagna; ma non sognava tampoco di ristabilire su solida base una novella dinastia in Firenze: tutto ciò ei faceva per avvezzare i popoli ad un cangiamento di dominazione. Voleva insomma condurre a termine il suo ambiziosissimo disegno d'innalzarsi un trono; ed ecco che un senatus-consulto del 18 maggio 1804 dichiarò sulla proposta del Tribunato, che il primo console era imperatore dei francesi e che questa dignità doveva essere ereditaria nella sua famiglia. Il mondo ne restò maravigliato; e Napoleone seppe indurre il Pontefice sommo ad irsene a Parigi per consecrarlo Imperatore. Ai deputati della repubblica cisalpina recatisi a Parigi per assistere all'incoronazione, fece sapere che voleva essere chiamato re d'Italia. I deputati subito aderivano; e Melzi presentandosi innanzi al trono imperiale, il 17 marzo 1805, scongiurava, a nome dell'italica consulta, Napoleone a voler ridurre l'italiana repubblica ́in monarchia e ad essere re d'Italia. Rispondeva Napoleone che accettava, e che sarebbesi portato a Milano per farvisi in

coronare.

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LXXX.

Napoleone, e poco stante Pio VII vengono a Torino. Monsignor Buronzo è indotto dall'uno e dall'altro a rinunziare a questa sede arcivescovile; gli succede monsignor della Torre che può fare un gran bene alla chiesa torinese.

Bonaparte creò immantinente vicerè d'Italia il figliuolo di sua moglie, Eugenio Beauharnais, il quale partiva subito da Parigi per recarsi alla capitale della Lombardia. Mettevasi quindi in viaggio Napoleone, ed insieme con la sua consorte faceva nel dì 26 di maggio 1805 il suo magnifico ingresso in Milano, ed ivi nel maggior tempio prendeva la corona ferrea, e ponendosela in capo diceva quelle parole: Dio me la diede, guai a chi la tocca.

Fu in occasione di quel viaggio, che Napoleone venne a Torino e prese alloggio a Stupinigi. Per dare una prova che egli aveva di buona fede e sinceramente ristabilito il culto cattolico in Francia, volle nella chiesa interna della villa di Stupinigi assistere ai divini misteri, che ivi furono celebrati dall'illustre canonico Marentini, stato eletto a suo cappellano per le imperiali cappelle di Torino e di Stupinigi, coll'annuo stipendio di lire sei mila e col diritto di un alloggio nell'imperiale palazzo di questa città e di un'altra abitazione in quella splendida villa. Per dare eziandio un argomento, che voleva proteggere efficacemente le scienze, invitò ivi a pranzo il celebre abate Caluso, e gli diede a mensa il posto tra lui e l'Imperatrice: dall'uno e dall'altra il CaJuso fu trattato con ogni riguardo. Si presentarono all'imperatore in quella villa i primari impiegati di Torino: ei ne rimosse alcuni dalla loro carica, dopo averli rimproverati della loro condotta: a tutti gli altri disse parole benevole e manifestò il suo proponimento di vantaggiare i destini di questa metropoli. Monsignor Della Marmora, che dalla sede vescovile di Casale era stato traslato a quella di Saluzzo, andò allora a Stupinigi per prestare a Napoleone il solenne giuramento di fedeltà e di sommessione. Questo prelato che fu poi cardinale, si mostrò soddisfattissimo del modo con

cui fu accolto dal grande conquistatore. Ma ben altramente avvenne a monsignor Buronzo del Signore. Essendo questi col capitolo de' suoi canonici ito a Stupinigi per prestare omaggio a Napoleone, fu ricevuto con modi scortesi ed anzi con acerbi rimproveri di essere troppo sospetto al governo francese e di essersi mai sempre dimostrato eccessivamente partigiano della casa di Savoja. Senza smarrirsi d'animo, rispose l'arcivescovo: non può esser delitto il mio antico affetto ai re di Sardegna, che mi hanno colmato di benefizi; e l'ingratitudine non fu mai una virtù: però come io sono stato in allora buon suddito di chi regnava, così ora mi fo preciso dovere di riconoscere e di onorare V. M. L., é prestarle fin d'ora il giuramento di fedeltà. No, non voglio, soggiunse sdegnosamente Napoleone, perchè mi prestereste un giuramento di restrizione mentale; e se i miei nemici si avvicinassero al Piemonte, andreste voi il primo a raggiungerli contro di me: in così dire gli voltò dispettosamente il dorso. Noi per altro crediamo che il Buronzo sia stato così malamente accolto da Bonaparte, non tanto pel di lui affetto alla casa di Savoja, quanto perchè nell'anno in cui la demagogia sotto lo specioso titolo di repubblica imperversava in Piemonte, questo arcivescovo di Torino, per accondiscendere al desiderio di Musset, commissario di Francia in questa città, mandava fuori lettere pastorali soinmamente lodatrici del governo repubblicano, e pareggiatrici delle sue massime a quelle del vangelo: poi crescendo (1799) vieppiù la rabbia dei popoli, pubblicava una pastorale esortatoria, in cui molto amorevolmente citando frequenti passi delle sacre scritture, confortava i popoli a quietare e ad obbedire ai magistrati. Ma una siffatta pastorale rimaneva senza efficacia; perocchè dicevasi che egli avevala fatta per forza; ed intanto non pochi lo chiamavano gia cobino.

Era arrivato in quei giorni in Toriuo il sommo pontefice Pio VII di ritorno da Parigi, ove avea solennemente incoronato Bonaparte, e qui prese alloggio nel palazzo reale, divenuto imperiale. Co' suoi canonici si presentò Monsignor Buronzo ad usare al glorioso Papa ogni atto di religiosa venerazione; e quindi, in privata udienza, pregò il santo

Padre del suo consiglio intorno alla rinunzia dell'arcivescovado. Non voleva il prelato deliberare da sè in cosa di tanta importanza: continuare nella cura pastorale ad onta di Napoleone, non gli pareva spediente pel suo gregge, e cedere per una particolare propria molestia, neppur gli sembrava conveniente. "A questa richiesta non altro rispose Pio VII che col testo evangelico: exemplum dedi vobis ut quemadmodum ego feci, ita et vos faciatis; le quali parole egli replicò più volte alle nuove istanze del prelato, il quale perciò comprese, che siccome il supremo gerarca avea dato l'esempio di grandissime condiscendenze pel bene della chiesa, così l'arcivescovo potea fare il sacrifizio di rinunziare alla sua sede, per evitare mali maggiori. Così fece egli diffatto assai presto, ed a' primi giorni di ottobre di quello stesso anno, era già eletto il successore, monsignor della Torre, il quale in questa sua nuova destinazione rivolse immantinente i primi suoi pensieri a ristaurare a proprie spese il torinese seminario dei chierici, al rinnovellamento della biblioteca del seminario medesimo, cui diede una forma più elegante, e ciò che assai rileva si diede a restituire gli ecclesiastici studi all'antico loro splendore, erigendo nuove cattedre e concedendo pensioni gratuite e perpetue a que' giovani che mostravano ingegno e volontà di imparare le ecclesiastiche discipline: nè a ciò stando contento, fece a loro vantaggio legati generosi, che sono una evidente prova dell'incompa rabile grandezza dell'animo suo.

A

Per procurare a tutti i fedeli i possibili soccorsi della religione e principalmente ne' giorni pasquali, ricomprò colle sue rendite la così detta fabbrica degli esercizii, ove da tempo antico solevano adunarsi coloro che nella solitudine e nel raccoglimento hanno un santo desiderio di pensare agli affari dello spirito, e la ristaurò e la provvide delle necessarie suppellettili. Vegliò attentamente al deposito della fede; sicchè non s'insegnassero nella sua diocesi erronee dottrine; vegliò allo splendore del divin culto ed al pubblico esercizio della religione, e per lui alcune chiese già de' regolari non furono chiuse nè profanate. Torino rammenta ancora quante e quali furono le sue liberalità verso i miserabili. Sinistre impressioni erasi formato Napoleone contro il clero di Torino,

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