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genti d'arme, gridò, vi lascio, come vedete, non senza pianto. Di questa sola grazia vi prego, che fino al mio ritorno obbediate al figliuolo, che alla vostra fede ed al vostro amore consegno. L'onor mio, il mio sangue, l'utile vostro e della Chiesa vi sieno raccomandati, e fate che, come onorate a voi confido queste bandiere, onorate e vittoriose io da voi le riceva ». Dette queste parole, quasi a forza si spiccò dai compagni, e, rivolgendosi nel cammino tratto tratto indietro, mestamente si avviò verso Milano (1).

A Milano, mentre ignaro degli arzigogoli viscontei, sta in corte aggirato da vane lusinghe, ode quello che egli aveva bensi preveduto, ma non potuto impedire: vinte le sue genti a Montolmo e sbaragliate da Francesco Sforza, mercè soprattutto delle gare insorte tra coloro che le comandavano: prigioni i migliori dell'esercito, spersi e svaligiati i restanti: il cardinale Capranica e Francesco Piccinino in potestà del nemico, di lacopo suo secondogenito sapersi appena novelle, come di fuggiasco (2) ». Strasenti Niccolò questo fatal colpo, e ben conobbe la mano, da cui gli era venuto; per lo che tra il cordoglio, e tra la debilità naturale del suo corpo infralito eziandio dalle molte ferite, langui due mesi. Sentendosi venir meno, fece chiamare al suo letto il duca, e con umili preghiere gli raccomandò i proprii figliuoli e compagni, e la patria sua Perugia, che rimaneva in preda del nemico. Indi a pochi istanti nel dolore di tutta Milano

(1) Spirito, cit. III. 71.

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(2) Joh. Simonett. VII. 356. segg. Sanuto, 1115. - Crist. da Soldo, 832. - Bonincont. Ann. Miniat. 152.

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15 Sbre disperato moriva (1). Capitano di subiti consigli, presto all'odio, all'amore, al biasimo, alla lode, all'ira, alla riconciliazione: più facile a eseguire un'ardita impresa, che a ponderarne la difficoltà o la giustizia: pronto, audace, ed anzi che audace, temerario; ma in modo che la temerità e la prontezza gli fosse talora origine, talora rimedio di mala fortuna: non mai soggiogato, non mai abbattuto dalla sorte, ma ritrovante in sè contro ogni sciagura nuove forze, nuovi mezzi, nuovo valore: insomma di coloro, che dovunque posti, sono preparati a difendere il loro posto, buono o reo, con uguale bravura.

Di coteste doti i suoi figliuoli Francesco e Iacopo ereditarono l'audacia e la prontezza, ma non la fina astuzia, che al padre non di rado era servita di riparo a qualche errore. Del resto niuno fra i capitani d’Italia meglio somigliò a Niccolò Piccinino sia nelle buone, sia nelle cattive qualità, che quel Bartolomeo d'Alviano, il quale 65 anni dipoi fu preposto dalla repubblica di Venezia al governo dei suoi eserciti. Eppure quella tanta alacrità, quella indomabile energia del Piccinino partiva da un corpo piccino, zoppo, paralitico e pieno d'altri malanni, cosicchè nel camminare doveva sovente farsi sorreggere da due servi, e con grave stento poteva venir messo a cavallo. Nė la facondia gli compensava punto la perversa disposizione delle membra: anzi narrasi che nelle consulte era ben raro, che gli escisse di bocca altro che un qualche magro mi pare. L'animo adunque, l'animo solo invitto trionfava nel Piccinino con perpetua

(1) Cavalcanti, seconda Storia, t. II. c. XL. p. 224.

battaglia delle esili forze del corpo; laonde forse quella sollecitudine nel disegnare, quell'impeto tutto suo nel compiere una impresa nasceva in lui appunto dal sentire, come la lena gli mancasse a più diuturna contenzione, e gli fosse perciò uopo di lanciare un forte colpo, e poi riposarsi. Dura condizione! che Jascia in mostra al mondo una così piccola parte di noi stessi, e ci costringe a vivere di quotidiani sforzi, senza poterli coordinare in quel vasto e continuato disegno, a cui l'animo con grande e sicuro corso sarebbe per condurli! Nè la infermiccia complessione del Piccinino ebbe forse una minima parte in quelle cupe trame, e in quelle crudeli esecuzioni, che talora ne oscurarono la memoria; come quando, posti al bersaglio alcuni traditori, ei medesimo pel primo li balestrò (4).

Tale fu Niccolò Piccinino: ben diverso da lui Francesco Sforza. Maschio animo in maschio corpo, fermo, costante, calcolativo; il disegno concepito una volta eragli in mente come fiaccola, che lo illuminava ed accendeva a ridurgli intorno ogni opera, ogni detto, ogni pensiero; la virtù, se non era ostacolo, volentieri abbracciata, se ostacolo, quasi virtù non fosse, messa in disparte: il male, non mai per abito o scopo, bensì come mezzo necessario accettato: amore ed odio non isconosciuti, ma sottomessi agli intenti: gli intenti poi grandi di grandezza comune, cioè conquista e potenza. Esaminando l'uno e l'altro, avresti chiamato nel Piccinino il fallire errore, nello Sforza

(1) G. B. Poggio, l'ita di N. Piccinino, p. 144. 155. —— Decembrio, Vita di N. Piccinino (R. I. S. t. XX).

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colpa; il fallire del primo operazione di un momento, che un altro momento cancellava; il fallire del secondo operazione di tutta una vita, che un'altra vita non avrebbe mai cancellato. Entrambi ebbero molti nemici, lo Sforza per necessità, il Piccinino per occasione; del resto all'indole di ciascuno corrispondenti: fervidi, a salti, trasmodati gli odii verso il secondo, ma non iscompagnati da certa lontana benevolenza; cupe, vitali, eterne le nimistà verso Francesco Sforza, perchè ben si sapeva, che quando anche il suo cuore l'avesse consigliato a perdonare, il suo interesse lo avrebbe ritenuto dal farlo. Niuno di sensi veramente grandi invidierà l'uno o l'altro di essi: ma forse un animo gentile, quando fosse costretto a scegliere, preporrebbe le sventure del condottiero Perugino allo splendore principesco dell'emulo suo.

IV.

Cinque giorni innanzi al miserabile fine di Niccolò 10 8bre Piccinino, il papa Eugenio IV, ridotto a tollerabili consigli dalla sconfitta di Montolmo, aveva segnato un accordo con Francesco Sforza, nel quale accordo si era assunto l'obbligo d'investirlo con titolo di marchese di tutte le terre che questi possedesse in quel punto o fosse per acquistare fra otto di. Perciò, tranne Ancona, Recanati, Osimo e Fabriano, che nondimeno gli si resero tributarie, tutta la Marca tornò nella obbedienza di Sforza. Ma non tardò a sopravvenirgli di nuovo addosso una più fiera tempesta.

Era Filippo Maria Visconti per la morte del Piccinino rimasto privo di un capitano generale. Niun altri parvegli più idoneo a ciò di Sarpellione, stato testè

principale causa della vittoria di Montelauro. Laonde il fece dapprima tentare delicatamente per mezzo di alcuni amici. Trovato il terreno propizio, inviaronsi messaggi dall'uno all'altro, si stabili un carteggio in cifra, e il negozio fu concluso. Era Sarpellione antico compagno e famigliare di Francesco Sforza (1); nė certo, essendo terminata la guerra, gli portava vergogna l'acconsentire al vantaggioso partito offertogli dal Visconti: nondimeno, temendo di incontrare qualche difficoltà per parte dello Sforza, gli dissimulò la cosa, e solo gli chiese licenza di andare a Milano, affine di riscuotere le rendite di alcuni poderi già ricevuti in dono da quel duca. Ma le vere intenzioni di Sarpellione, le sue trattative col Visconti, il soldo, i servigi pattuiti, tutto, non si sa come, era trapelato fino alle orecchie di Francesco Sforza: nel quale dopo parecchi giorni di perplessità, alla fine lo sdegno e l'interesse trionfarono dell'antica amicizia. In conseguenza Sarpellione venne arrestato; ed avendo all'aspetto dei tormenti confessato molto più ancora di quanto aveva mai fatto o pensato, espiò sul patibolo 29 9bre la troppa fama (2).

Risuono tosto per tutta l'Italia il miserabile caso, e per quanto Sforza s'affaticasse a scusarsene, universale fu il biasimo, grandissima l'ira del duca Filippo

(1) « Fu Ciarpellone d'animo grande, ancorchè bassamente « nato; fin da giovinetto caro allo Sforza, sotto cui si portò in « modo, che di piccolo e abbietto pervenne al nome di famoso « capitano. Nelle fazioni di guerra quanto accorto, pronto e << valoroso, tanto nel civil vivere temerario, rapace, vano, « violento e poco fedele». Baldi, Vita di Federico d'Urbino, II. 73.

(2) Cron. Riminese, 950 (t. XV). - Joh. Simonett. VII. 362.

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