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IV.

Però Francesco Sforza, che in questa campagna s'era acquistato, ed a buon diritto, la fama di grandissimo capitano, a ben altro fine che alla esaltazione dei Milanesi intendeva indirizzare la vittoria di Caravaggio. Era tra i prigionieri un Clemente Tealdini segretario dei provveditori veneziani e molto famigliare di Francesco Simonetta, che esercitava uguale ufficio presso di lui. Avutolo a sè, Sforza gli impose, che in gran segreto si recasse a Venezia, e in caso che trovasse il Senato desideroso di pace, lo consigliasse a mandare incontanente a trattarne Iacopo Marcello, o Pasquale Malipiero. Giunse il Tealdini a Venezia quasi ad un tempo cogli oratori inviati a somigliante effetto dalla repubblica di Milano. Il Senato trattenne questi a parole, e spedi senza indugio il Malipiero con ampie facoltà allo Sforza. Insomma non erano ancora trascorsi trentatrè giorni dalla bat18 Sbre taglia di Caravaggio, che tra lui e i Veneziani venivano a Roveltella conclusi siffatti capitoli di accordo, che rovesciavano a' danni dei Milanesi tutti i vantaggi della vittoria riportata coi proprii denari.

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Importava la somma di que'capitoli, che quindi innanzi sarebbe stata pace e sincera alleanza offensiva e difensiva tra il conte Francesco Sforza e la serenissima Repubblica di Venezia: che questa lo avrebbe aiutato a sottomettere Milano con 6000 cavalli, con 2000 fanti e con una provvigione di 15,000 ducati al mese: che, ciò fatto, avrebbe il conte ritenuto per sè la parte della Lombardia, la quale era appartenuta negli ultimi tempi a Filippo Maria Visconti; il resto

sarebbe stato ceduto alla signoria di Venezia, e il filo dell'Adda avrebbe servito di confine fra i due Stati (1).

Fermato codesto accordo, Francesco Sforza, che aveva frattanto trasferito l'esercito alla oppugnazione di Brescia, fa radunare le squadre, e percorrendone a cavallo le ordinanze, manifesta loro con infiammate parole l'inaspettata mutazione delle sue cose. Avere esso col sangue e col sudore delle proprie soldatesche racquistato ai Milanesi Parma, Piacenza, S. Colombano e Tortona, disfatto un potentissimo naviglio a Casalmaggiore, annichilato un fortissimo esercito a Caravaggio: ora di tante fatiche qual premio? Le invidie, le gelosie, le nimistà d'uomini indegnissimi avergli ritardato i viveri, scemato le paghe, tarpato, per quanto potevano, le ali alla prospera sua fortuna. Avergli bensì i Milanesi promesso in iscritto di metterlo al possesso di Brescia, e di conservargli Cremona. Pure non aver lui mai potuto ottenere di campeggiare la prima città, o di munire la seconda in modo da porla al sicuro dagli insulti ostili. Di giunta le sue vittorie essere state accolte col nome di tradimenti, un accordo anzi una lega essere stata proposta dai Milanesi ai Veneziani non solo occultamente e senza sua saputa, ma a distruzione di lui e delle schiere state sempre fedeli compagne dei pericoli e delle gesta paterne e sue. A tale infine essere stato condotto dall'altrui perfidia, da dover perire, oppure appigliarsi a qualche magnanimo partito. Ora questo

(1) Dumont, Corps diplom. t. III. p. I. p. 169. — Navagero, 1112. Crist. da Soldo, 855.

partito essere stato preso: avere definitivamente abbandonato i Milanesi alla propria cecità, e sottoscritto coi Veneziani un trattato che gli assicura il trono della Lombardia, suo per diritto di successione, suo per donazione tra i vivi dello suocero. Ottomila soldati della repubblica, ampii stipendii, l'amicizia dei Fiorentini, le proprie aderenze, la cooperazione delle città di Cremona e di Pavia, e sopra ogni cosa il valore e l'affetto delle sue soldatesche, persuaderlo che sarà breve il combattimento, piena la vittoria, immenso il premio. Il seguano adunque, ora che Milano e la Lombardia stanno per guiderdone della fatica ».

I soldati, soliti a mutare padrone da un giorno all' altro, e riceverne il nome dai capi, risposero con alte grida di sì, e collo stesso ardore col quale avevano servito Milano, si rivolsero a servire Venezia (1). Ludovico dal Verme, Carlo Gonzaga, Guglielmo di Monferrato, Guglielmo Torello e gli altri condottieri, guadagnati da Sforza colle promesse o sbigottiti colle minaccie, giurarono colle proprie squadre il medesimo (2).

La funesta nuova recata prestamente a Milano, riempi in brev'ora le vie, i portici e le piazze di gente ansiosa, che in mille modi l'ascoltava e ridiceva, faticando l'aere di maledizioni e lamenti. Però i cittadini non si peritando ancora a crederla affatto, nè disperando che tutto questo non fosse per avventura un artificio impiegato da Sforza per vantaggiare le sue condizioni, forse anche, come fanno i deboli op

(1) Joh. Simon. XIV. 488.

(2) V. alla nota XX il contratto d'assoldamento di Guglielmo di Monferrato.

pressi, cercando quasi di dissimularsi l'esistenza di un male irreparabile, deputarono al conte quattro personaggi per richiederlo del vero stato delle cose, e se fossevi ancora tempo, ridurlo sul diritto sentiero:

non potere la repubblica sofferire l'idea di ciò che si vocifera: non volesse egli badare alle private ingiurie od opinioni d'alcuni pochi, ma si alla stima e alla fiducia posta in lui dal corpo della città. Hannogli mai i Milanesi rotto verun patto, o fatto cosa men che giusta? Non sono forse eglino pronti a soddisfarlo d'ogni brama, la quale non sia contraria a quella incorrotta libertà, cui hanno giurato difendere all'ultimo sangue? Or saran questi i frutti di due segnalate vittorie? Sarà questo l'ufficio delle soldatesche che la città col proprio denaro mantiene? Tornasse egli agli antichi pensieri, e volesse essere anzi il padre e l'artefice della nuova repubblica, che non l'infame traditore e sovvertitore di essa. Di ciò eglino supplicarlo in nome della giustizia, in nome del cielo, pei giurati patti, per l'onore suo, per la salute di un infinito popolo risoluto a vivere libero od a morire. In ogni caso non avere lui alcun diritto di ritenere le squadre commesse alla sua fede, e molto meno di rivolgerle in disumana lotta contro i proprii padri e fratelli ».

Rispose Francesco Sforza: troppo gravi, troppo frequenti offese averlo condotto a quel passo: doversi i Milanesi ricordare con quanta fede, con quanto utile loro egli li avesse serviti in tempi difficili e pericolosi, e con quanto sospetto, con quanto astio, con quanta guerra ei ne fosse stato rimunerato: troppo a lungo essere stato empio e traditore verso se stesso e la propria famiglia e la memoria cara dello

suocero nell'indugiare a salire sopra un trono suo per naturale diritto, suo per legittima donazione. Però non temessero di castigo: Sforza principe avrebbe scordato le ingiurie arrecate a Sforza condottiero; e sebbene ancora al presente abbia motivo e potere di castigare, non essere tuttavia per ispogliarsi dell'innata clemenza. Del resto, quanto alle squadre, non tenerle incatenate; seguano chi vogliono; e, se Milano è preferta, servano pure Milano (1).

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Licenziati a questo modo gli ambasciatori, Sforza circondò incontanente tutti i suoi capitani di fidatissime spie, affinchè destramente ne osservassero ogni motto ed ogni cenno, e glielo riferissero; poi, fattosi venire innanzi Luigi Bossi, uno degli ambasciatori che si era fermato nel campo, famigliarmente lo esortò: « a badar meglio al proprio interesse ed a quello della Repubblica; a non lasciarsi illudere da una menzognera larva di libertà, che viene e passa con amare vestigia: doversi al comun bene immolare le private passioni, e, posciachè cedere è forza, cedere di buon grado senz'altro incomodo. Con non dissimili ragionamenti si conciliò gli animi degli abitanti di Piacenza e di Binasco, e quello dei tre fratelli da Sanseverino, valorosi capitani di 800 cavalli. Frattanto approssimava sempre più l'esercito a Milano, ma sotto pena di morte ai soldati che inferissero qualsiasi danno alle persone od agli averi della gente inerme.

In questi frangenti la repubblica inviò a Francesco Sforza una nuova ambasciata, con autorità di conce

(1) Ripamont. Hist. patr. dec. III. I V. p. 371. — Joh. Simonett. XIV. 489.

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