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versità la debolezza e timidità di Gian Antonio Orsini, principe di Taranto, che per ragione delle sue ricchezze ed aderenze era rimasto capo della fazione angioina, e l'arrivo inaspettato di un celebre capitano. Era questi Giorgio Castriota detto Scanderbeg, il quale dopo avere difeso a passo a passo col proprio sangue le eroiche provincie dell' Epiro dalle invasioni degli infedeli, era accorso con 800 cavalli a ricambiare verso il re di Napoli Ferdinando i favori, che in quella lotta gli erano stati impartiti dal morto re Alfonso.

A tanto capitano niun altro fu stimato degno di stare a fronte che Iacopo Piccinino. Fu egli perciò preposto dal duca di Angiò a reggere l'esercito della Puglia; e tosto vi si condusse, seco traendo con molte onoranze una famosa matrona. Era costei Lucrezia d'Anagni, che per molti anni aveva signoreggiato il cuore del buon re Alfonso. Morto il re, s'era ella a prima giunta ritirata colle immense sue ricchezze nella città di Venosa. Ma bentosto l'avaro e geloso animo di Ferdinando, che era succeduto al trono, la pose in necessità di provvedere meglio a' proprii interessi. Per la qual cosa Lucrezia aveva confidato i suoi tesori e la sua persona a lacopo Piccinino, e se gli era fatta compagna nella tenda del guerriero e nei soggiorni di pace (1).

Del resto le operazioni del Castriota nel regno di Napoli non corrisposero di gran lunga alla fama sparsa nel mondo del suo valore e della sua gene

(1) Jov. Pontan. II. 36. D. Quando poi il Piccinino si fu riconciliato col re, questa donna si ridusse in Dalmazia, dove invecchiò. V. Summonte, 1. V. p. 443.

rosità. Appena arrivato, circondò Trani di assedio,
e invitò il Castellano, che vi comandava, ad abboc-
carsi seco. Questi assenti, e fidato sul diritto delle
genti uscì dalla città. Ma nel calore dei discorsi il
Castriota colla immensa sua forza lo afferra pel cor-
po, lo svelle da cavallo, e lo porta prigione alle sue
tende. Quindi con terribili minaccie lo eostringeva
a fargli consegnare la terra. Questa cosa persuase
il Piccinino ad opporre tradimento a tradimento:
a tale effetto fece richiedere il Castriota di un col-
loquio. Convennero in un sito posto a mezza strada
tra i rispettivi alloggiamenti. Subito dopo i primi ab-
bracci, il capitano epirota tolse a riprendere soave-
mente il condottiero italiano della poca fede da lui
dimostrata verso il re Ferdinando, ed a sforzarsi
di convertirlo all'antica obbedienza. Iacopo si guardò
bene dal respingere affatto codeste proposte; anzi
ora scusandosi, ora accusando, e sempre prolun-
gando a studio il discorso, venne bel bello trasci-
nando il Castriota verso le proprie schiere. Alla fine,
quando gli parve tempo, fece un cenno ai suoi,
e questi si precipitarono per circondarlo. Ma il Pic-
cinino aveva avuto troppa fretta: Giorgio, rotto a
forza il cerchio degli armati, sano e salvo ricoverossi
alle sue tende (1). Tra queste macchinazioni terminò
l'anno 1461.

Nell'agosto seguente una battaglia perduta dal Pic18 agosto cinino sotto le mura di Troia mandava in fondo la 1462 fazione degli Angioini. Infatti non solamente quella città si arrendeva al re Ferdinando, ma il principe

(1) Pii II Comment, VI. 302.

di Taranto gli giurava obbedienza, e il duca Giovanni d'Angiò era astretto a cercare nelle balze dell'Abruzzo e nei sussidii dei Caldoresi che vi dominavano, i mezzi di una finale difesa (1). Quivi colle spoglie A. 1463 di una contessa di Celano perfidamente spossessata, Jacopo Piccinino riuscì ancora a rifare l'esercito; e con esso campeggiò Sulmona, ributtò i nemici accorsi per liberarla, e se ne insignori per fame dopo sette mesi di magnanima resistenza.

Gli fu bensì quest'acquisto amareggiato dalla venuta di Alessandro Sforza, il quale con diciotto elette squadre di cavalleria spedite dal duca di Milano si congiunse alle genti del re Ferdinando, e si accampò poco lunge dalla torre delle Arche, dove il Piccinino aveva piantato gli alloggiamenti: sicchè, attesa la prossimità degli eserciti e l'ardore delle soldatesche, pareva imminente una nuova battaglia; e già le schiere con giornalieri assalti vi si andavano in certa guisa addestrando; quand'ecco il Piccinino, sotto la fede di un salvocondotto, presentasi ai padiglioni di Sforza, ed al cospetto dei condottieri regii si dichiara pronto a desistere immediatamente dalla guerra. Tosto fu proposto e concluso tra loro un accordo; in virtù del quale il Piccinino doveva passare ai servigi del re 10agosto di Napoli, con titolo di capitano generale, stipendio di 90,000 ducati all'anno, e condotta di 5000 cavalli e 500 fanti. In esso trattato gli vennero confermate le città e terre da lui possedute nell' Abruzzo (2),

(1) Joh. Simonelt. XXIX. 740., XXX. 750. — Giorn. Napolet. 1133. - Cron. d'Agobbio, 1003. Trist. Caracciol. De variet. fort. p. 77 (R. I. S. t. XXII).

(2) Esse furono Sulmona, Carantanico, Cività di Penna,

e data facoltà d'invadere e di appropriarsi pur quelle del conte di Campobasso. D'altra parte egli si obbligò ad avere sul fatto per nemici tutti i nemici del re, salvo però, di non potere essere chiamato a giurargli fede ed inalberarne le insegne prima di avere ricevuto il quarto delle sue paghe. Quanto a queste venne stabilito, che metà gli fossero assegnate sopra i tributi dell'Abruzzo, l'altra metà in tre parti uguali gli venisse sborsata dal papa, dal re suddetto, e dal duca di Milano. Fu stabilito altresì, che la sua condotta durasse un anno, con beneplacito di due altri; trascorso il qual tempo, rimanesse in suo arbitrio di servire qualunque Stato che non si trovasse in aperta guerra col re (1).

Conosciuto quest'accordo, il duca Giovanni d'Angiò fuggì da un regno stato sempre fatale alla sua casa: il re Ferdinando ricavò dalla vittoria le forze per fondare sulla strage e sulla depressione dei baroni un'assoluta signoria. Primi a sentirne il peso furono i Caldoresi. Capo di costoro era quell'Antonio figliuolo di lacopo Caldora, che già col grado di gran conestabile e di vicerè aveva tenuto il primo luogo nel regno. Ferdinando trovò modo di tirarlo alla corte: allora, benchè contro la fede data, lo fece richiudere in prigione. Uscitone dopo gravi stenti, Antonio esulò alcun tempo in sembianza di bandito per le terre d'Italia: finalmente in lesi, nel tugurio di un povero uomo,

Bucanico, Francavilla, Villamaina, la Guardia, la Tessa, Turino, Civita S. Angelo e Brocardo. Cron. mise. di Bologna, p. 752 (t. XVIII).

(1) Pii II Comment. XII. 590. Crist. da Soldo, 897.Machiav. Ist. Fior. VI. 101.

già soldato del padre suo, lasciò colla vita gli affanni (1). Esempio a coloro, che il parteggiare misurano secondo i comodi privati: una fazione li teme, l'altra li guerreggia; ed essi cadono odiati dalla prima, oppressi dalla seconda. Il resto della illustre schiatta dei signori da Caldora peregrinò per l'Italia, cercando nell'esercizio delle armi quell'onore e quegli agi, che la fortuna le aveva rapito.

VI.

Tra i fuggiaschi Napoletani, che seguirono oltre le Alpi la contraria sorte di Giovanni d'Angiò, noveraronsi un Boffile del Giudice, un Giacomo Galeotto, ed un Niccolò conte di Campobasso, della chiara stirpe di Monforte, che aveva apparato la milizia sotto la disciplina di Iacopo Caldora, e le cui spoglie erano state il prezzo dell'ultima defezione del Piccinino. Tutti costoro non mostrarono nella difesa dell' Angioino in Francia minor fedeltà e fortezza di quella che avevano mostrato in Italia. Quando la resistenza diventò inutile, Boffile si condusse ai servigi del re di Francia, Giacomo e Niccolò con 120 compagni recaronsi agli stipendii di Carlo il Temerario duca di Borgogna, e con gran fama di valore lo servirono alla battaglia di Montlhèry (2). Bentosto le perpetue guerre tra il duca e i principi vicini, e le frequenti ribellioni, e i continui mali umori dei sudditi resero il ministerio di entrambi i condot

(1) A. di Costanzo, XX. 514. - Summonte, Ist. di Nap . V. 164 (Napoli 1675).

(2) Mém. de Comines, 1. 1. ch. VI Sismondi, Hist. des Franç. t. XIV. 430.

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