Immagini della pagina
PDF
ePub

le arti del medesimo re, e la calata dei Francesi compirono l'opera. Di tutta la infelice stirpe dei Piccinini non rimase altro che un figliuolo postumo per nome Gian Iacopo, che Drusiana sposa e vedova quasi a un tempo partori alla corte del padre qualche mese dopo l'uccisione del marito (1).

II.

Tre anni avanti la uccisione del Piccinino, era Piacenza stata testimone di un'altra non meno crudele di un non meno valoroso condottiero, Ricorderà il lettore, come nella precedente guerra Tiberto Brandolini, nipote o bisnipote del famoso Brandolino stato uno dei restitutori della italiana milizia, si fosse ridotto dai servigi dei Veneziani a quelli di Francesco Sforza, e quindi si fosse affaticato a confermarlo in seggio. Pari al valore erane stata fino allora la fede; posciache ed egli erasi partito dai Veneziani dopo averne ottenuto formale licenza, e prima di passare agli stipendii del nemico aveva voluto svernare in territorio neutrale alla Mirandola. Ma questi suoi meriti istessi insieme ad una certa sua asprezza ed alterigia di modi, come ne rendevano il ministerio utile nei gravi pericoli, così gli conciliavano astio, tostoché questi per opera sua fossero stati superati. Avvenne che il popolaccio di Piacenza, gravato da 25 genn. enormi taglie e illuso da una falsa nuova della morte del duca Francesco Sforza, si sollevò al grido di libertà, e scorrendo armata mano le vie fece quello che fanno le pazze plebi, arse i registri, demoli i luoghi dei

(1) Joh. Simonett. XXXI. 766,

1452

dazii, malmenò coloro che li riscuotevano. Il governatore della città, non potendo a prima giunta opporre alcun diretto rimedio alla sedizione, fece mostra di approvarla, e giurò tutti i patti che la moltitudine gli chiese. Con questo espediente calmò alquanto gli animi infiammati: intanto egli empieva di armati la città. Quando gli parve ogni cosa in pronto, e che al popolo fosse troncata la strada di fuggire e di resistere, cominciò a mandare i faziosi sulle forche a quattro, a sei, a otto per volta. Terminati i supplizii, siccome il Brandolini ne era stato principale ministro, così pensò di versarne sopra di esso tutto l'odio, e l'offerse vittima al popolo confuso e arrabbiato.

Detto fatto, il misero capitano sotto l'accusa di essere di accordo sia coi ribelli di Piacenza sia cogli Angioini di Napoli, venne balzato dal governo delle armi nel fondo di una torre. Quivi stentò sette mesi; in capo al qual tempo un bel mattino fu rinvenuto colla gola tagliata, e accanto a lui una daga spuntata e sanguinosa. Allora chi dominava fece spargere la voce, che stanco della prigionia si era egli medesimo con violenta mano reciso la vita. E così tutti ripeterono; ma niuno vi prestò credenza; anzi all'orecchio si bisbigliava, essere gli sgherri entrati per qualche cosa in quella uccisione, e ciò per ordine segreto del duca di Milano, al quale non potevano guari andare a versi cotesti capi di ventura turbolenti sempre e sempre di peso, massime a coloro a cui avessero procacciato un trono. Del resto quando in Piacenza si celebrarono gli ultimi ufficii alle spoglie di Tiberto Brandolini, la plebe solita non solo a confidare

a un'altra vita il castigo delle oppressioni sopportate in questa, ma a vederne colla fantasia anticipati segni, credè di scorgere attorno la bara del morto il demonio sotto forma di un velloso mastino, che ringhiando lo minacciava (1).

Pochi mesi dopo la morte del Piccinino seguiva per effetto d'idropisia quella del duca Francesco Sforza, capitano per ingegno, per fortuna e per fama superiore a qualsiasi dei suoi tempi e di molti secoli addietro. Sebbene vissuto nelle armi, fu il primo a procurare alla Lombardia riposo e stabilità, primo con Alfonso d'Aragona e Cosimo de' Medici a stringere in una lega tutta l'Italia; da privato divenuto principe, seppe, mediante il forte e savio suo modo di governare, farsi scusare il tradimento di cui si era servito per elevarsi, e, non ostante alcuna sua crudeltà e frode, conseguire in tempi corrottissimi l'estimazione di uomo giusto. Di avvantaggiata statura, di ben complesse membra, agilissimo nelle armi, nella lotta, nel corso; parco di sonno, di vitto, e di parole; acuto nel risolvere, circospetto nell' eseguire, mori dopo essere uscito vincitore da 22 fatti d'armi, e colla corona in fronte di Milano, di Genova e della Corsica. Liberale dell'oro, come quegli che asseriva non essere nato per fare il mercatante, le private lussurie e i pubblici inganni ricopri collo innalzare chiese, riattar vie, costrurre ponti, alimentare letterati, e preporre

(1) Alb. de Ripalta, Ann. Placent. 912 (R. I. S. t. XX). - Joh. Simonett. 1. XXVII. 734. Cron, misc. di Bologna, 744. 748. Ann. Foroliv. 226 (t. XXII).

8 marzo 1466

Lodrisio Crivelli e Giovanni Simonetta a scrivere le proprie e le paterne gesta (1).

Quanto alle compagnie di ventura, Francesco col nome del padre riuni la scuola sforzesca sotto di sè, colla propria virtù l'esaltò e se ne cattivò l'affezione, e colle forze del principato la sottomise di sorta, che alla sua morte essa parve come annientata; e in generale, la milizia italiana, tranne alcuni pochi condottieri, restò smembrata sotto oscuri capisquadra. Quanto al dominio da lui acquistato, pochi lustri bastarono ad abbatterlo; i suoi figliuoli, dopo avere regnato con infamia, caddero con infamia vilmente, aprendo il paese allo straniero. Vide l'Italia nel giro quasi di un mezzo secolo un Galeazzo Maria avvelenare la madre, e poscia restare scannato ai piedi degli altari; un Ludovico il Moro avvelenare il nipote, usurparne lo Stato, e quindi perderlo, ricuperarlo, riperderlo e terminare la vita di là dalle Alpi in una oscura prigione; un Massimiliano fatto giuoco di Svizzeri e di Tedeschi passare in Francia ancor esso in sembianza di prigioniero; un altro Massimiliano perire di veleno a Firenze, e con un Francesco Sforza, come reo giudicato, come servo vissuto, spegnersi il seme dominante dell'illustre famiglia, cui la bravura e la operosità degli avi avevano elevato dalla gleba al trono, e i vizi e la ignavia dei nipoti precipitarono dal trono nell'esiglio e nel dispregio.

[merged small][ocr errors][merged small]

III.

Frattanto Bartolomeo Colleoni, l'inclito condottiero dei Veneziani, circondato dai vecchi suoi camerati e da quell'Antonio Cornazzani, che ne lasciò scritta la vita, beeva queste novelle sotto le nere volte del suo castello di Malpaga. Quivi a cerchio seduti intorno ad un ampio focolare, o sotto un folto pergolato fra le risa ed i bicchieri riandavano le passate imprese, ora ascoltanti ora narratori a vicenda, ora a' racconti dell'uno aggiungendo le proprie avventure, ora nel correggerli quistionando, e nella quistione suscitando nuova materia di attenzione e lite. Cosi passavano insensibilmente dall'una all'altra stagione dell'anno e beato l'ospite apportatore di alcuna novità! Beato il primo a conoscerla, a ridirla, a commentarla! Così a mano a mano s'erano colà intese le ultime gesta, e quindi le nozze, e il viaggio, e la uccisione del Piccinino; così la morte di Francesco Sforza, i tumulti di Napoli, le reciproche gelosie de' principi italiani, ed i più lontani rumori di guerra erano colà stati cagione di straordinarie discussioni ed infervoramenti.

Una sola volta s'era Bartolomeo spiccato per un A. 1457 certo tratto di tempo da quel romito asilo, cioè tre anni dopo la pace di Lodi, allorquando la Signoria chiamollo a Venezia per fregiarlo del titolo e delle insegne di suo capitano generale. Recovvisi in compagnia di seicento de' più famosi caposquadra, soldati e famigliari suoi. Vennergli incontro sulla laguna il doge, il consiglio, gli oratori delle città suddite e dei principi amici, e tra le grida del popolo affollato nelle

« IndietroContinua »