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CAPITOLO SECONDO

Dalla calata del re Carlo VIII a quella
di Luigi XII.

A. 1494-1499.

GLI ORSINI, I Vitelli e 1 Colonnesi,

I.

Non mai l'Italia era stata più libera da straniera influenza quanto nei 50 anni trascorsi dalla pace di Lodi alla calata del re di Francia Carlo vIII. Rispettata e ambita da tutti i principi d'Europa l'amicizia dei duchi di Milano, delle repubbliche di Venezia e di Firenze, e dei reali di Napoli; venerata per ogni dove l'autorità suprema del romano pontefice; gli stranieri accorrevano in folla alle nostre città per apprendervi l'industria e le buone arti, ed acquistarvi la mitra o la porpora; gli Italiani non senza molto utile ed onore occupavano coi loro traffichi le Fiandre, la Francia, l'Inghilterra, e tutta la marina del Mediterraneo; insomma nessuna parte esteriore ci mancava di una grande e indipendente nazione.

Ma l'intervallo di quei sei lustri non era bastato ad amalgamare in un corpo principi e sudditi. Guai al governo che non si cura di esplorare i veri bisogni della nazione, e non sa secondarli senza prostrarsi ! Le forme esterne del potere presto cadono; e chi si credeva montato sopra un ferreo colosso, più non si trova sotto che un vano fantasima. Tale fu il destino

dell'Italia, allorchè la Spagna, la Francia e la Germania, già uscite dall'anarchia del medio evo e ridotte a compatte masse, l'assaltarono colle armi in pugno. Non solo le sue politiche divisioni non le permisero di opporre agli sforzi di quei grandi popoli che gli sforzi appena di questa o di quella provincia; ma ancora questi sforzi rimasero a mezzo. Il popolo non abbracciò la causa dei governi appunto perchè i governi non avevano abbracciato la causa del popolo. Sfortunati gli uni e gli altri! chè quelli furono abbattuti, questi pagarono le spese ai vinti ed ai vincitori.

Al principio dell'anno 1492 l'aspetto degli Stati d'Italia era il seguente.

Prima per vastità di dominio, per credito, per opulenza, per potentissimo naviglio si appresentava Venezia; rispetto alla quale la pace da essa ultimamente stipulata col Turco, e la possessione dell'Illiria, della Grecia, e delle terre di fresco rapite ai signori di Padova, di Verona, di Milano e di Ferrara, avrebbero realmente proporzionato le forze al concetto che se ne aveva, se la novità degli acquisti di terraferma, e il difetto di buoni ordinamenti militari non avessero fatto ostacolo. Ciò nondimeno i Veneti patrizii, quanto più lontani dagli esercizii della milizia terrestre, tanto più ostinati a volere estendere le frontiere dello Stato oltre l'Adda ed il Po, stavano coll'occhio ognora intento sopra i principi vicini, e sopra le città marittime dell'Adriatico, per valersi del primo interno od estrinseco moto, affine di porvi le mani addosso. Così la repubblica sotto false larve di utilità e di grandezza si avviava alla propria perdita.

In dispregio al popolo, in odio alla nobiltà, regnava sopra Napoli Ferdinando di Aragona, le cui ultime proscrizioni e sevizie avevano fatto dimenticare del tutto l'antica sua riputazione di bontà e di saviezza. Nè l'universale avversione si restringeva soltanto alla persona del re: ma, da lui partendo, comprendeva tutta la schiatta dominante, e soprattutto il primogenito Alfonso duca di Calabria, principale instigatore e ministro delle passate crudeltà e della presente oppressione. Frattanto i Sanseverini ed i Caldoresi, esuli dalla patria e dai ricchi loro dominii, andavano seminando per le città dell'Italia e della Francia sediziosi discorsi, ed ira e vilipendio grandissimo per quello stato di cose. Ad essi si univano, almeno coi desiderii, se non colle occulte intelligenze, i loro consanguinei, amici, e dipendenti, che erano rimasti nel regno di Napoli; poi il popolo, straziato sempre ugualmente da Angioini e da Aragonesi, sperava pur sempre col cambiar signore di cambiar condizione.

Sedeva al pontificato il papa Innocenzo vi: ma Roma, ognora divisa fra i Colonnesi e gli Orsini, giaceva come preda apparecchiata al più audace e potente. A questa fazione stavano per capi Virginio Orsini e Niccolò conte da Pitigliano; a quella Fabrizio e Prospero Colonna, e Antonio Savelli, tutti e cinque valorosi capitani d'uomini d'arme agli stipendii ora del re di Napoli, ora del papa, ora del duca di Milano, o della repubblica di Venezia. Il resto del dominio ecclesiastico era smembrato in cento signorie o tirannidi: Guidobaldo da Montefeltro in Urbino, Giulio da Varano in Camerino, Giovanni Bentivoglio in Bolo

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gna, Catterina Sforza in Imola ed in Forlì, i Manfredi in Faenza, i Baglioni in Perugia, gli Sforzeschi in Pesaro, i Malatesti in Rimini, i Vitelli, per militare perizia e tragico fine indi famosi, in Città di Castello, chi con autorità usurpata sopra gli uguali, o sopra il popolo, e sopra la Chiesa, chi con potestà carpita e poi ottenuta dal papa o dall'imperatore, quale con più, quale con meno rigore, ma tutti circondati da un gran satellizio, avvezzi alla professione del condottiero, e sempre tementi e sempre fautori di ribellioni, di agguati e di avvelenamenti, con poca forza, con nessuna quiete imperavano.

Di tutti costoro varie erano le vicende. Ora per discacciare l'emulo dal seggio proponevano alla Chiesa od alla plebe larghi partiti, che poi, giunti al potere, restringevano a mano a mano, finchè la città non acclamava alla signoria un competitore, che per uguali difetti veniva alla sua volta soppiantato da un terzo ora accordavansi tra loro, e si dividevano popoli e città; spesso il papa favoreggiava una fazione affine di deprimere la fazione opposta, e nel contrasto di entrambe dominare: talora innalzava sopra due partiti un terzo mascherato di libertà. A dir breve era un continuo vacillare tra abusi e concessioni, tra licenza e tirannide, attento il signore ad accrescere la sua autorità oltre l'onesto, pronto il popolo a diminuirla insino all'anarchia.

Siena a Pandolfo Petrucci, Genova al duca di Milano, Lucca, in apparenza all'imperatore Massimiliano 1, in fatti a se medesima obbediva. I principotti di Ferrara e di Mantova, costretti dalla loro debolezza a nascondere i proprii voleri, attendevano ansiosamente

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