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di carne carne e di ammazza ammazza, e la collina si riempiè di armati, chi quà chi là accorrenti per farli prigioni o trucidarli. In tanto frangente, l'avarizia di chi lo inseguiva e l'accortezza di un fedel servo salvarono Guidobaldo. Infatti, mentre i villani perdono tempo ad arraffarne le valigie, lasciate apposta addietro, e le svolgono, e si azzuffano per strapparsi dalle mani quanto vi è dentro, Guidobaldo sfuggi loro dagli occhi. Alfine, dopo avere errato lunga pezza per monti e per selve ove il terrore lo conduceva, giunse sul tramontare del sole in Castelnuovo, vicino a Meldola.

Apparteneva questo luoghicciuolo ai Veneziani; ma nemmeno colà dovevano avere termine le angoscie del misero principe: da una parte il vicario veneto, non si fidando di tenere tal ospite seco, gli intimò tosto di uscirne, non aspettate neppure le tenebre; dall'altra parte non sapeva egli medesimo ove indirizzarsi, dacchè certa donna venuta dal mercato lo aveva avvisato, che i passi verso Galeata, e la strada maestra per Ravenna, anzi Meldola stessa rumoreggiavano di fanti e di cavalli nemici. Ciò nondimeno, pigliando forza dalla disperazione, Guidobaldo monta di nuovo a cavallo sotto altre spoglie, e per contorte vie s'incammina a Paderna. Traversò tra Bertinoro e Cesena felicemente la strada maestra, e verso l'abbuiare giunse in una larga pianura. Quivi si soffermò a prender fiato: ma incontanente un orrendo frastuono di cannoni e di campane, e uno spesseggiare infesto di cenni e di fuochi sopra le colline attorno sopravvennero a rinnovargli colla paura la necessità del fuggire. Fugge egli adunque

di nuovo; e già nel buio della notte sembrava alla sua atterrita fantasia di udire lo scalpito dei cavalli e le grida minacciose dei satelliti che da ogni banda lo inseguissero a morte. Come Dio volle, allo spuntare dell'aurora scôrse le mura amiche di Ravenna; e allora il suo animo attonito e quasi trasognato restò, rivolgendosi ai pericoli corsi e alla sofferta mutazione di fortuna (1).

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Codesto esempio principalmente ammoni i condottieri, i quali ritornavano dalle spedizioni di Napoli e della Toscana, a opporre una comune difesa al comune pericolo. Fu concertato un general convegno di tutti loro alla Magione, villeggiatura posseduta da Giampaolo Baglioni sul Perugino. Quivi si trovarono, o si fecero rappresentare da ambasciatori, tutti gli Orsini (già amici e servitori al Borgia e al re di Francia, ora per necessità avversi all'uno ed all'altro), Vitellozzo, il Baglioni suddetto, Guidobaldo, il * Bentivoglio già padrone di Bologna, e Pandolfo Petrucci signore di Siena. Ma quegli che per risolutezza di concetti terribilità di fama a tutti sovrastava, era Oliverotto Freducci da Fermo. Orfano dei genitori, era egli stato con paterna cura nodrito nei primi suoi anni da Giovanni Fogliani, signore di Fermo e suo zio materno: quindi sotto Paolo e Vitellozzo Vitelli si procacciò non volgar lode nella milizia. Giunto così al sommo dei gradi conceduti allora a uomo privato, considerò che niun condottiero poteva più vivere e crescere senza uno Stato: «e se un unico osta

(1) Baldi, Vita di Guidobaldo, I. VI. 240 (Milano 1821).

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colo di parentado si frappone all'intento, a che ristare? Lordi non erano di sangue i seggi di tutti i principi della Romagna?» Con tal pensiero, essendosi introdotto in Fermo con cento cavalli sotto specie di visitare lo zio, lui confidato nei continui benefizii, nel vincolo del sangue, e nei parentali amplessi, fra gli evviva di un convito barbaramente scannò. Ora si studiava di salvare dagli artigli del Valentino la usurpata signoria (1).

La somma delle deliberazioni prese dai condottieri congregati alla Magione fu, che venisse senza indugio stabilita tra loro una lega e una taglia di 700 lancie e di 9000 fanti per riacquistare lo Stato al duca di Urbino, e per comune difesa di tutti, ed offesa del Borgia; che gli fosse tosto dichiarata la guerra, e il Bentivoglio da una parte, Oliverotto dall'altra, di quà il Baglioni, di là gli Orsini e il Petrucci la inferissero. Ne i fatti tardarono a tenere dietro alle deliberazioni; anzi, erano esse appena conosciute, che la ribellione di tutto l'Urbinate, la rivolta di Camerino, e la disfatta e la presa di Ugo di Moncada, principale luogotenente del Valentino, persuadevano il duca stesso a richiudersi più che in fretta dentro Imola.

Ma, superato il primo sgomento, non stentò il Borgia a ripigliare coraggio. Cominciò ad aprire trattative con questo e con quel capo, affine di svolgerne i divisamenti verso quel fine, che sempre avranno tutte le congiure o alleanze, nelle quali al comune interesse non si voglia immolare il comodo privato.

(1) Machiav. Il principe, c. VIII.

Tostochè la vittoria e la lontananza cancellò in essi l'idea del presente pericolo, bilanciaronsi i prossimi incomodi provenienti dalla lega coi remoti pericoli minacciati dal Valentino; e si concluse essere follia quella di assoggettarsi ad un male certo e presente per riparare ad un male incerto e futuro. Insomma chi per timidità, chi per ignavia, chi per gelosia o avarizia venne meno al proseguimento dell'impresa. Il Valentino più non trovò contro a sè che confusi consigli, imperfetti apparecchi, e vane dimostrazioni di guerra. In breve, scaltri ragionamenti, grandi lusinghe e sacrileghi giuramenti bastarongli per levare le armi di mano a uomini, che sembravano maneggiarle a malincuore. Così la lega unita pel terrore fu rotta colle blandizie. I condottieri, pieni di reciproci sospetti, mal sicuri di se stessi e peggio dei proprii sudditi, abbandonarono il duca di Urbino alla sua sorte, e stipularono col Valentino un accordo nel quale si prescriveva, ch'egli avrebbe obbliato e perdonato tutte le cose passate; che di Bologna si sarebbe deliberato in modo che fosse piaciuto a lui, al cardinale Orsini ed al Petrucci; che a tutti loro sarebbero state confermate le condotte già prima godute presso il medesimo Valentino, però col patto che non sarebbero stati obbligati a servirlo in persona che ad uno per volta (1).

(1) Machiavelli, Legazione al Valentino, lett. XXII. p. 619. Guicciard. V. 377.

IV.

Ratificato l'accordo, il duca Valentino, affine di estirpare dall'animo dei condottieri qualsiasi seme di sospetto, distribui le sue soldatesche per la Romagna, e sparse voce di essere sdegnato col re di Francia. A tale effetto fece richiamare in Lombardia le genti, che questi gli aveva spedito in soccorso. Ciò conseguito, recasi a Cesena, si abbocca con Oliverotto, e tanto l'aggira cogli artifiziosi suoi discorsi, che lo persuade a lasciare issofatto ogni altro disegno, e ad aiutarlo con i suoi compagni a sottomettere Sinigaglia.

Stava in questa rocca per castellano e tutore del giovinetto Francesco Maria della Rovere, un uomo tale, che l'Italia non può senza religioso fremito di amore e di riverenza nominare, e che da quell'umile ufficio era per salire tant'alto da rifiutare la signoria di una gloriosa repubblica. Dir vogliamo Andrea Doria. Questi conoscendo la debilità della piazza, s'affrettò a mandarne via nascostamente le persone del giovine principe e della madre di lui: poi, quando il nemico gli fece la chiamata, rispose « essere la signora a letto ammalata; attendessero la risposta pel di seguente. Lo credettero gli assedianti e aspettarono ma egli a notte buia monta a cavallo in compagnia di un servitore, esce dalla rocca, e per istrani sentieri si indirizza a Firenze (1). Quegli, che vi rimase in suo luogo, protestò che non avrebbe rimesso

(1) Capelloni, Vita di A. Doria, p. 2-15. - Sigonii, De Vita A. Auriæ, 1. I. p. 9 (Genova 1586).

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