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cavalleria, ai cannoni ed all'immenso carreggio dell'esercito. Infatti già da più mesi, nel percorrere furtivamente le più segrete sinuosità delle Alpi, aveva egli notato una via, che spiccandosi dal Moncenisio saliva per la valle della Dora, e quindi, lasciandosi a man sinistra il Monginevra, con terribili piegamenti per disusate valli arrivava ai gioghi dell'Argentiera. Tosto gli era sorta in mente l'idea, che quella via potesse servire a invadere l'Italia; epperò, mentrechè stava governatore nella città di Lione, aveva preparato argani, ponti, traini, e ogni altro ordegno necessario all'uopo. Venuta ora l'occasione, così fatto cammino, appena noto ai più arditi Alpigiani, fu dal maresciallo italiano proposto al giovane re di Francia; e questi, contro l'opinione di tutti, e specialmente del Lautrech e del Navarro, i quali erano stati spediti apposta a speculare il sito, approvò l'impresa, e scelse per mandarla ad effetto il Triulzio medesimo.

Cominciò il Triulzio coll' avviare innanzi 5000 agosto 1515 guastatori acciocchè acconciassero i sentieri; quindi, presa seco una provvisione di viveri per cinque dì, partissi coll'antiguardo da Embrun, guadò a s. Clemente la Duranza, e fermò i primi alloggiamenti alla Gilestra. Il di seguente non senza grave travaglio superò il colle di Vars, e giunse al piede della balza di s. Paolo presso alle rive dell'Ubaia, che quindici miglia più sotto bagna Barcellonetta. Di colà cominciava veramente la difficoltà della intrapresa, sicchè gli stenti passati dovessero parere un nonnulla al confronto di quelli che soprastavano pel terzo giorno; vincere cioè la balza di s. Paolo, discendere la valle fin al punto (ivi ora è la terra di Glaisoles) in cui vi

entra quella della Oronaia, poscia risalire l'Oronaia alle sue sorgenti, e montare la vetta dell'Argentiera; e tutto questo eseguire colle pesanti artiglierie, ed in brevissimo tempo per non dare presa al nemico di opporsi, e non ostanti le enormi roccie, e i gioghi, e i precipizii ad ogni tratto interposti. Ma il re voleva quella impresa, e la guidava il Triulzio, ed oltre l'Argentiera era il Piemonte, era Milano, erano le belle donne lombarde, e i ricchi scrigni degli industriosi Italiani; fu perciò senza esitazione posta mano al lavoro.

Diventata inutile l'opera dei cavalli, cominciossi coi picconi e colle scuri a spianare le erte, e su per esse a spalle ed a braccia portare le artiglierie, o trascinarle con corde, o spingerle a forza di petti in sù. Pervenute che erano sopra l'erta, un largo e profondo baratro le disgiungeva talvolta dall'opposta balza. Allora tu avresti veduto alle nuove difficoltà nuovi ingegni e nuove forze supplire; ed ora, mediante robuste funi ed argani fermati agli scogli od ai tronchi d'alberi delle due vette, trainarsi quasi per incantesimo dall'una all'altra cima per aria le artiglierie; ora tra balza e balza con puntella e corde gettarsi un tavolato affinchè serva di strada; ora alle prominenze medesime dei precipizii appoggiare le travi, sulle quali ecco stendersi tavole e fascine e zolle, e condursi settantadue cannoni, le cui pesanti carrette mandano per le inospite valli un non più udito fragore.

Cosi con maravigliosa industria degli operai e travaglio dei soldati si pervenne ai piedi dell'Argentiera, là dove il colle bipartendo le sorgenti dell'Oronaia

scevera le acque della Francia da quelle dell'Italia. Di colà per la valle della Stura, rompendo la balza di Piè di porco che tagliava la valle pel mezzo, scesero, non ancor terminato il quarto giorno, al Sambucco poche miglia sopra Vinadio. Così fu compita codesta impresa, che sarà in tutta la memoria dei fatti di guerra lodevolissima, e degna, se agli antichi si risguarda, di venire comparata colla famosa di Annibale, se ai moderni, colle stupende calate dello Spluga e del San Bernardo. Tanta gloria a un Italiano, il quale già aveva trascorso il settantaquattresimo anno del viver suo, era serbata! Ai Francesi apparteneva coglierne per nostro danno i frutti (1).

Mentre passavano di quel modo le artiglierie pel colle dell'Argentiera, il più degli uomini d'arme e dei fanti camminavano pei gioghi della Dragoniera e della Rocca Perotta, preceduti dal cavaliere Baiardo, che, sdegnoso di maggiori comandi, col solo grado di capitano si era acquistata fama e riverenza invidiata dai principi. Ora entrato appena in Piemonte, concepi egli nell'animo una arditissima fazione. Sapendo che stavano alloggiate in Carmagnola 300 lancie della compagnia di Prospero Colonna, e che esse vivevano senza ombra di timore, s'avvisò di uscire a furia da Savigliano colle squadre a cavallo dell'Imbercourt, dell'Aubigny e del Chabannes, sorprendere quella terra, e svaligiarvi e farvi prigioniero chi vi era dentro. Nè al disegno fu meno pronta l'esecuzione per parte dei cavalieri francesi, nei quali

(1) Giovio, St. XV. 409. — Guicciard. XII. 173. — Rosmini, Vita del Triulzio, XI. 489.

si conservavano tuttavia alcune vestigia delle antiche instituzioni feudali e cavalleresche, e della corrispondente indipendenza e alacrità individuale, cui poscia una più accurata disciplina ristrinse e riuni attorno al servigio del principe.

Aveva Prospero Colonna avuto certo avviso dell'arrivo del Baiardo, ma non già di quello degli altri di lui compagni; sicchè più volte scherzando cogli amici si era vantato di pigliarlo, come tordo in gabbia; e in fatti prendeva nelle sue cose quella sicurtà, che in paese amico e difeso strabbondantemente gli pareva poter prendere. Con questa disposizione di animo si parti adunque sul tardi da Carmagnola per raggiungere il campo generale degli Svizzeri presso Pinerolo. Giunto a Villafranca, fece alto per refiziarsi e sentir messa. Mentre si recava alla chiesa, taluno gli disse che i nemici avevano in gran numero passato i monti, ed egli motteggiando rispondeva, che non si era ancora veduto gente'armata volare sopra le Alpi. Udita la messa, siccome di nuovo gli esploratori gli riferivano che i Francesi erano vicini, chiamò uno dei suoi gentiluomini, e gli impose di scorrere con una ventina di cavalli due o tre miglia sopra la strada di Carmagnola. Ciò fatto ordinò al trombetto di suonare la partenza, tostochè avesse pranzato.

A un miglio e mezzo dalle porte, gli scorridori del Colonna scopersero da lontano i Francesi, che, avendo trovata Carmagnola vuota di gente, con grande impeto venivano verso Villafranca. Tosto quelli si rivolsero addietro; ma con non minore celerità si scagliano alle loro spalle gli arcieri a cavallo dell'Imbercourt, che li raggiungono, e insieme con

fusi, Italiani e Francesi, precipitansi dentro Villafranca. Dietro l'Imbercourt, gridando Francia Francia, galoppava Baiardo seguitato dall'Aubigny e dal Chabannes, i quali a prima giunta oppressero le guardie stordite e disarmate. Quindi senza altro ostacolo trassero alla casa ove era alloggiato Prospero Colonna.

Vi arrivarono quando già, sbarrate le porte, e disposti i famigli, questi si preparava a difendersi virilmente. Ma troppo presto fu a sopraggiungervi il cavaliere Baiardo, il quale, avendo rotte le porte, e scalate le finestre, innondò le camere di armati, e gli comandò di arrendersi. Prospero gli chiese chi egli fosse; avendo inteso che egli era Baiardo, e che con lui si trovava il fiore della nobiltà francese; « volentieri a voi mi arrendo», esclamò, e rimase prigione. La innocente terra insieme con tutte le soldatesche che vi erano dentro, andò a bottino: il Colonna, tra suppellettili, vasellame e danaro spiccio, vi perdette meglio di cinquantamila scudi.

Aveva il cavaliere Baiardo grande capriccio in sui lunghi ragionamenti. Un di volle far toccare con mano al Colonna suo prigioniero, ch'egli doveva ringraziare il cielo della propria cattività; stantechè lo liberava dalla certa morte e sconfitta, a cui senza fallo sarebbe andato incontro nel corso della guerra. Ben io mi avrei volentieri pigliato codesta briga▾ rispose fra i denti il condottiero romano. Per l'opposito un'altra volta nel discorrerne col Triulzio, essendo sfuggito di bocca al Colonna, che l' infortunio succedutogli a Villafranca poteva accadere a qualsiasi. « A voi si, a me no»; soggiunse un po' bruscamente il

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