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del Barbiano, di Braccio e di Sforza, gli animi dei condottieri italiani allargaronsi a bramare signorie, o ricevendole dalla gratitudine dei principi, oppure di propria mano colle proprie squadre usurpandole, difendendole e tiranneggiandole. Ora le squadre di due specie di soldati si componevano. Altri erano venturieri d'ogni paese, che licenziati da questo correvano presso quel condottiero. Fra essi sceglievansi le lancie spezzate, uomini devotissimi, cui i principi ed i capitani ad uno ad uno assoldavano e assiduamente intrattenevano a cieco strumento d'ogni loro volontà (1). Altri erano antichi compagni e dipendenti, od anche sudditi del condottiero, il quale perciò sopra di essi fondava la sua potenza, persuaso di trovar sempre nella loro prole nuovi guerrieri pieni di uguale riverenza e amore verso lui, verso la sua scuola, verso ogni cosa che da lui discendesse.

Così queste inclinazioni da padre in figlio si perpetuavano; così, come Braccio trasmetteva a Niccolò Piccinino, e Niccolò a Francesco, e Francesco a Iacopo figliuoli la propria scuola, una generazione all'altra se ne trasmetteva i seguaci. Non rechi adunque meraviglia, se la distinzione tra le scuole di Braccio e di Sforza durasse tanti anni. Bensi talora accadeva, che gli accidenti della guerra riunivano per alcun tempo capitani di opposta fazione. Ma non si tosto conchiudevasi la pace, che tu li miravi ritornare agli antichi sensi d'odio e di alterigia, e Braccieschi e Sforzeschi ridestare le sopite querele. Ciò appunto accadde nel 1455. Avevano bensì gli eventi della guerra portato

(1) Grassi, Diz. milit.

Francesco Sforza a combattere in compagnia di Niccolò Piccinino contro Lorenzo Attendolo suo congiunto e amico; ed il Piccinino ad opporsi in Toscana al Fortebraccio, parimenti suo congiunto e intrinseco; ma non era appena ratificata la pace di Ferrara, che Sforza volava a congiungersi cogli Attendoli, e Niccolò a soccorrere il Fortebraccio assalito da Sforza.

II.

Oramai intorno a questo fortunato guerriero, che in se medesimo compendiò, per così dire, la gloria e la ventura di tutti i condottieri suoi pari, sarà per raggrupparsi il nostro racconto; al quale finora servirono come di centro i personaggi di frà Moriale, di Giovanni Acuto, di Alberico da Barbiano, di Braccio, di Sforza, e per ultimo lo sventurato piemontese, che ebbe mozzo il capo sulla piazza di s. Marco. Siamo ora adunque per rivolgere l'animo ancora dolente di quel caso alla narrazione degli accidenti, pei quali la corona ducale dei Visconti s'arrestò sulle chiome di un Attendolo; e ancora per lungo tempo ci si parerà dinnanzi il freddo, simulato e instabile ingegno di Filippo Maria, non infedele immagine di un secolo, che aveva dal precedente ereditato la ferocia e la malvagità, ed era per consegnarle al seguente, senza investirsi nè della fortezza del primo, nè dello splendore e della leggiadria dell'altro.

Non ostante la pace di Ferrara, gli animi del duca A. 4433 di Milano e del pontefice Eugenio IV erano rimasti tra loro grandemente sdegnati. Dava affanno al Vi

sconti il rimembrare, come il papa nella passata guerra avesse palesemente soccorso contro di esso lui i Fiorentini; dava affanno ad Eugenio IV il conoscere, come il duca allora appunto gli avesse suscitato contro la schiatta dei Colonnesi, antico e perpetuo travaglio dei romani pontefici. Però Filippo Maria, aggiungendo al proprio odio la certezza di essere odiato, e di potere non solo impunemente ma con profitto vendicarsi, pensò un modo di molestare il papa nelle viscere sue stesse senza offendere per nulla i recenti capitoli della pace. Niuno meglio di Francesco Sforza, giovane, audace, invitto, capo di fiorite squadre, padrone di vaste possessioni nella Romagna e nel regno di Napoli, pareva idoneo alla subdola impresa; ma il duca, ognora raggirato dai più vili, ognora sospettoso d'ogni uomo un po'forte, non stimò conveniente di affidargli quel carico, prima che non ne avesse messo la fede ad un sicuro sperimento. Tanto egli ideò, tanto eseguì. Dimorava il condottiero tranquillamente nella sua Cremona. Il duca gli scrisse invitandolo di venire sul fatto a Milano, e consegnò la lettera ad un Simone Ghilino suo famigliare, con ordine preciso, se Sforza viene, di accompagnarlo, se tituba o ricusa o fugge, di ammazzarlo. Francesco, non isconturbato punto nè dalle esortazioni degli amici, nè dagli avvisi ricevuti per via, segui senza indugio il messo a Milano. Tanta prontezza gli bastò presso il Visconti, che trapassando di colpo da sommo sospetto a somma fiducia, lo accolse qual figlio, e lo pose a parte di tutto l'animo suo. Bentosto ogni cosa fu concordata tra loro. Francesco Sforza chiese pubblicamente licenza

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di andare nel regno di Napoli affine di ricuperarvi alcune terre stategli occupate da Iacopo Caldora (1). Il duca glielo assenti. Allora quegli invitò con particolare bando tutti coloro, che avessero qualche credito verso le sue soldatesche, a porgergli i loro riclami. Come li ebbe soddisfatti, uni le sue alle genti di Lorenzo Attendolo, e si avviò verso Bologna. Un salvocondotto, carpito al pontefice sotto ombra novhre di amicizia, aperse al condottiero il cammino sino a Forlì. Quivi riposò dieci dì: frattanto pervenivano a maturità le ascose pratiche di ribellione da lui seminate nelle città attorno. Ad un tratto esse scoppiarono. Scopresi egli allora inopinatamente per nemico, e sfoderando certa lettera vera o supposta del concilio di Basilea, dove gli viene commesso di impadronirsi di quella provincia, occupa, a guisa di fulmine, lesi, Potenza, Monteolmo, Recanati, Ascoli, Fermo ed Ancona. A questi danni congiunse anche temerariamente lo scherno; avvegnachè intitolava i suoi dispacci: dal castel nostro di Fermo a dispetto di Pietro e di Paolo (2) ». Giubilò il duca Filippo Maria al ricevere queste nuove; chè secondo gli occulti concerti collo Sforza, ogni nuovo acquisto doveva essere fatto a suo nome, e lo illudeva la vana presunzione delle signorie di pretendere fedeltà da chi è loro strumento per ingannare altrui. Ma chi

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(1) Joh. Simonett. II 224. Blond. Flav. Hist. dec. III. J. V. p. 474 (Basilea, 1559).

(2) Bonincont. Ann. Min. p. 140 (t. XXJ). —- Joh, Simonett ̧ III. 226. - Petr. Russ. Hist. Senens. p. 46. Il Bonincontri era allora soldato di Sforza; anzi poco stante fu gravemente ferito all'assedio di Montefiascoue.

aveva mancato di fede al Papa per conseguire, non dubitò di mancarne al duca di Milano per conservare. Quando i cittadini di Osimo si presentarono al cospetto di Francesco Sforza, e si profferirono pronti a concedersi in obbedienza al duca Filippo Maria «Non qui fa mestieri di duca nè di Milano, rispose ad essi il condottiero bruscamente; io solo vi ho vinti; che io solo vi acquisti! Se vi annoia obbedire a me, tornatevene pure addietro; vi otterrò per forza ».

Ma la Romagna non era la sola provincia dello Stato della Chiesa ove si facesse sentire il peso delle armi di ventura. Un altro capitano, Niccolò Fortebraccio, con temerità pari alla gagliardia delle membra aveva sottomesso Vetralla, Assisi, Monte fiascone, Tivoli e Città di Castello; ed essendo aiutato sfacciatamente dai Colonnesi, già si era indirizzato verso Roma col risoluto proposito di violare le soglie del Vaticano, e strapparne la sacra persona del Romano Pontefice. Nè vi ha dubbio, che il sacrilego disegno riesciva, se la pietà o l'interesse di alquanti saccardi con anticipato avviso non lo avessero antivenuto. Roma, chiuse le porte, messe le guardie sulle mura, tra il prurito di rubellione e gli stimoli della fame, contemplò lunga pezza le quotidiane scorrerie del condottiero: il quale sbaragliava i papali a Genazzano, accozzavasi con Francesco figliuolo di Niccolò Piccinino, e un po' colle armi, un po' con una bugiarda patente del concilio di Basilea, s'assoggettava la maggior parte del Patrimonio, e della Campania e Marittima. Frattanto lo Sforza, superato l'Apennino, riceveva a patti Todi, Toscanella, Otricoli, Terni e Suri, senzachè Michele Attendolo, condottiero dell'e

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