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rava dolorosi travagli al Piccinino e a tutta la sua stirpe, allestiva altri affanni al misero giovane, non da gloria disacerbati, non da ricchezze, non da conforto di patria o di congiunti.

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Del resto sia per lo spavento di tanta disfatta, sia pei manifesti favori de' Veneziani, ovvero pegli occulti dei Fiorentini, sia sopra ogni cosa per le armi e la riputazione di Francesco Sforza, sia infine per tutte queste cagioni insieme, fatto è che pochi giorni bastarono a costui per ricuperare al sommo pontefice Eugenio Iv il perduto dominio. Forli medesima, non ostante la stretta amicizia, che passava tra Sforza e l'Ordelaffi, dal quale era signoreggiata, di viva forza venne sotto- gronais messa alla Chiesa. Se non che tanti e così facili riacquisti rendevano al pontefice più amara la privazione della Marca, al cui prezzo, come narrammo, era stata guadagnata l'amicizia di Sforza; e siccome dalla gratitudine all'odio non vi ha talvolta alcuna via di mezzo, cosi, posciachè Francesco Sforza aveva ricuperato tutto il resto, parve tempo di toglierlo di mezzo, e levarsi ad un tratto l'obbligo ed il danno. Il conseguirlo coll'armi sembrava impossibile: si ricorse ai tradimenti.

Reggeva le cose temporali della Chiesa Baldassare di Offida, cattivo soldato, peggior consigliero. Costui cominciò dal farsi amico il duca di Milano, e ottenerne promessa di celere aiuto ad ogni sua richiesta: quindi sotto simulati pretesti di non so quale spedizione, si fece consegnare da Sforza gran parte delle soldatesche. Allora dispose la trama in modo, che nel medesimo tempo questi venisse ammazzato, e le sue genti, quant'esse fossero e dovunque si trovas

24 7bre sero, andassero a fil di spada. Teneva il condoltiero gli alloggiamenti presso ad un canale derivato dal Reno, e in quel sito precisamente, dove un ponte di legno detto Polledrano lo attraversa per mettere sulla strada di Bologna. A capo del ponte si innalzava una torre, e sotto di essa stavano le case di certo mulino, dove lo Sforza di buon' ora mezzo vestito e mezzo no, soleva recarsi a favellare dimesticamente coi soldati. L'Offida, colla facilità che gli porgeva la vicinanza de'suoi alloggiamenti, appostò dentro quella torre dodici balestrieri; acciocchè, colta l'occasione, pigliassero di mira il condottiero, unico ostacolo al riacquisto della Marca.

Tale fu l'intendimento; nè l'esito ne sarebbe riuscito diverso, se la buona fortuna di Sforza non ne avesse fatto pervenire notizia al cardinale di Capua, o fosse stato in costui minore la magnanimità o la prontezza nel palesarglielo. Bentosto alcune lettere intercette da Sforza gli comprovarono il medesimo. Allora questi (e già aveva discostato le sue tende da quelle dell'Offida) raduna a parlamento le schiere, manifesta loro ogni cosa, e ne chiede vendetta. Il tuono di mille voci, il lampo di mille spade risposero a quell'invito senza altro, tutta la soldatesca, quale onda straripata, versasi fuori dal campo, si scaglia sopra i pontificii e li dissipa. Fu tra i prigionieri l'Offida. Sforza, dopo averne spremuto col mezzo dei tormenti la piena confessione del fatto, confinollo nei sotterranei di Fermo però non riputando conveniente di farne altro risentimento, mostrò di prestare piena credenza alle escusazioni mandategli in proposito di ciò dal papa. Poco stante due traditori gli

proposero di uccidere il Piccinino: egli non solo non vi acconsenti, ma li ributtò da sè con terribili minaccie. Da ciò il Piccinino prese motivo di concepire tal riverenza verso l'emulo suo, che non poteva, narrasi, sopportare, che se ne dicesse male in sua presenza (1).

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Aveva Niccolò per dire il vero partecipato nelle ree intenzioni di Baldassare di Offida; anzi ad effetto di secondarle all'uopo s'era accostato colle sue squadre alla Romagna. Andata a male la trama, voltossi senza indugio sopra Genova, e si provò ad impadronirsene; ma non vi ebbe più favorevole successo: allora con molto seguito di fuorusciti s'incamminò ottobre verso la Toscana. Giuntone ai confini, richiese i Fiorentini che gli concedessero il passo affine di condursi nel regno di Napoli. Questi, che per esperienza conoscevano qual cosa significassero cotali domande, si fecero cedere in grazia dal sommo pontefice la persona di Francesco Sforza, e senz'altro mandaronlo sulle rive dell'Arno a santa Gonda contro i Braccieschi. Così la guerra in un punto fu chiarita e rotta tra Nicolò Piccinino, e la repubblica di Firenze. Pari erano le forze, pari la riputazione dei due capitani; perlochè niun di loro volendo essere il primo a dar dentro, stettero alcun tempo nel più fitto del verno immoti a riguardarsi. Alla fine Niccolò colla solita furia se ne toglie; assaggia Vico Pisano, arde S. Giovanni alla Vena, espugna Filetto e S. Maria in Castello, ed animato dalla prosperità imprende a campeggiare

(1) Cron, misc. di Bol. 657. 510. Joh. Simonett. IV. 254.

Bl. Flav. dec. III. L. VII. p.

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8 febbr. Barga, chiave della montagna di Pistoia. V'accorse prestamente Francesco Sforza, e ne lo discacciò in isconfitta. Indi a non guari i Piccinino veniva dal duca di Milano richiamato in Lombardia, acciocchè opponesse un riparo ai progressi dei Veneziani, che avevano varcato l'Adda; lo Sforza ne pigliava occasione per ricuperare ai Fiorentini le castella perdute, e porre l'assedio a Lucca, antico e continuo segno della loro ambizione (4).

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Giunto in Lombardia il Piccinino vinceva i Veneziani sulle sponde dell'Adda, li rivinceva su quelle del Mella ond'eglino mandavano supplicando alla signoria di Firenze, che inviasse ad essi per reggere le loro armi il conte Francesco Sforza: niun altri essere idoneo di stare a fronte di Niccolò Piccinino ; niun altri poter ravvivare la guerra malavviata contro Milano: eppur dipendere da questa guerra, non che l'acquisto di Lucca, la libertà di Firenze, anzi della Italia! Imperocchè se Venezia e Firenze insieme unite stentano tanto a schermirsi dalla ambizione del Visconti, or che farebbe, vinta Venezia, Firenze sola? Nei Fiorentini, stati alquanti in forse tra la paura del duca di Milano e la cupidigia d'insignorirsi di Lucca, vinse finalmente il timore. Però, dopo avere raccomandato al conte di non partirsi da Lucca senza lasciarla bene cinta di fossi e di bastite, gli diedero licenza di passare ai servigi dei Veneziani.

Ma le costoro aspettative dovevano ciò non pertanto rimanere stranamente deluse. Aveva egli, per riser

(1) Machiav. V. 71 - Boninc. Ann. Min. 146. Ammirato, XXI. 9.

barsi aperto un adito alla riconciliazione col Visconti, inserto nei capitoli dell'ultima sua condotta colla lega la condizione di non essere obbligato a passare il Po. Quando ogni cosa si trovò pronta per la sua partenza, mise in campo questa restrizione. Oraessa, come ognun vede, rendeva del tutto vana la cooperazione che ne speravano i Veneziani. Questi negarono assolutamente di acconsentirvi: Sforza non si rimosse punto dal suo proposito. Così l'una parte l'altra stette come a rimirarsi: finchè eccoti i Fiorentini per trasmodata voglia di mettere Venezia alle prese con Milano, persuadere lo Sforza a scrivere ad essi una lettera privata, nella quale si dichiari preparato a fare ogni cosa che sia per venirgli imposta. Con questa lettera speravano indurre Venezia a ripigliare le armi contro il duca; la qual cosa era loro necessaria per potere condurre a fine la guerra di Lucca. Del resto, siccome promessa privata non può rompere, dicevano, pubblici accordi, così in conclusione dimostravano a Sforza, che egli sarebbe sempre libero di passare o non passare il fiume a suo piacimento. Veda ora la presento generazione forte e generosa, di quali mezzi siasi in ogni tempo servita l'ignava politica dei deboli ambiziosi! Riuscì l'artificio dei Fiorentini sia presso i Veneziani, sia presso il conte. Deliberatasene perciò la passata in Lombardia, giunse egli sino a Reggio; ma quivi essendosi rinnovate le formali istanze dei provveditori veneti per sospingerlo avanti, non tardarono a rinnovarsi le sue proteste in contrario per cui dopo lunga battaglia di preghiere e rifiuti e dibattiti, con loro licenza retrocedette in Toscana.

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