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Codesta ostinazione di Francesco Sforza gli riconciliò l'animo di Filippo Maria Visconti: ned egli era appena ritornato sotto le mura di Lucca, che per parte del duca gli sopravvenivano fervorosi messi e lettere, che lo invitavano a intromettersi per procurare la pace tra le potenze nemiche. Questo invito ne solleticò l'ambizione: inutile che aggiungiamo, che non erasi mai nel suo animo cancellato il prurito della amicizia e delle nozze viscontee. Ma un altro motivo lo spronava ai pensieri di pace: ed era la necessità di sbrigarsi dalle guerre dell'alta Italia per attendere con tutto lo spirito alle proprie cose della Romagna; dove Taliano da Forlì non solo aveva abbandonato i suoi servigi, ma si era unito a Francesco figliuolo di Niccolò Piccinino, e gli faceva aperta guerra. Insomma Sforza cominciò di per sè a stringere un trattato col duca di Milano; quindi parte per amore parte per forza vi trascinò eziandio Lucca 28 marzo e Firenze. Vennero nel nuovo accordo, oltre la solita esca del matrimonio con Bianca Visconti, assegnate al conte a titolo di dote le città di Asti e di Tortona, con arbitrio di servire chi volesse. Ed egli di presente indirizzavasi alle faccende della Puglia e della Romagna (1).

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IV.

Duravano a Napoli piucchè mai vive le fazioni, cui i vari e disordinati appetiti della regina e le 2 febbr. ambizioni dei baroni avevano rinfrescato. Morta lei,

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(1) Joh. Simonett. 266. — Machiav. V. 73.- Ammirato, XXI. 13. Cron, d'Agobbio, 976 (t. XXI).

Alfonso re d'Aragona erano

Renato duca di Angiò,
sorti a disputarsene la eredità: prestava favore al-
l'Aragonese il principe di Taranto col nerbo della
baronia: prestavanlo all'Angioino il papa Eugenio ed
un condottiero, alla cui fama non il valore, non l'in-
gegno, ma soltanto bastante campo mancò. Dir voglio
Giacomo Caldora, il vincitore di Braccio; il quale
solo, colle sue vecchie bande e possessioni, resistè
sovente a tutto lo sforzo degli Aragonesi, e colla in-
temerata fedeltà alla buona ed all'avversa fortuna di
Renato compensò l'incostanza, colla quale tre lustri
avanti non aveva dubitato di rivolgere le armi contro a
Braccio suo amico e confederato. Erano adunque Fran-
cesco Sforza e il Caldora stati compagni nella vittoria
all'Aquila: ora in diversa età, ma in non diversa
fama, stavano per ritrovarsi insieme ad uguale im-
presa: posciachè il duca di Milano, ingelosito dei
progressi del re Alfonso e mal pago delle dimostra-
zioni di riverenza, che la sua vanità, simulando ri-
fiutarle, insaziabilmente ne pretendeva, aveva inviato
verso Napoli lo Sforza, affine di rilevarvi la parte
Angioina.

Ma due accidenti, entrambi inaspettati, sopravvennero a deludere queste ultime speranze del buon Renato. In primo luogo quando già Francesco Sforza, dopo avere sottomesso per via Terni e Foligno, si era approssimato al fiume Pescara, le preghiere e le proteste del re d'Aragona toccavano siffattamente l'animo del Visconti, che non solo proibiva al condottiero di procedere innanzi, ma con minaccie di guerra induceva i Fiorentini a richiamarlo. S'aggiunse in secondo 18 9bre luogo la morte di Giacomo Caldora; che mentre pas

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seggiava tra due amici aspettando la resa di non so qual terra, côlto da subitaneo male stramazzava al suolo, e in poche ore esciva di vita. Capitano forte e magnanimo, di aspetto maestoso, di bella statura; e parlava con grazia anzi con facondia più che militare, nè mediocremente amava e professava le lettere. Signoreggiò gran parte dell'Abruzzo, della Capitanata, del contado di Molise e della terra di Bari: pur non sofferse mai, nota uno storico, d'esser chiamato nė principe nè duca; ma gli parea che chiamandosi « Giacomo Caldora superasse ogni altro. E per verità i titoli, pareggiando chi gli porta, ingrandiscono i deboli, impiccioliscono i forti: onde il portarli è sovente modestia, e superbia il contrario; siccome il piegare un grande animo a fortuna nemica può essere magnanimità, e debolezza il disperarsi e non operare il poco bene che si può.

Del resto, sia per cagione della sua fama, sia per cagione della sua potenza, ebbe il Caldora una fiorita scuola di capitani non solo valorosi, ma nobili e potenti in denaro ed in signorie, un Antonio e un Raimondo, l'uno figliuolo, l'altro consanguineo suo, un Paolo di Sangro, un Raimondo di Anichino, un Carlo di Campobasso, e quel Nicolò di cotesto medesimo casato che portò oltre le Alpi il nome della italiana milizia. Questi tutti alla testa delle schiere accompagnarono la salma dell'estinto condottiero agli ultimi onori in Sulmona, e in pubblica assemblea giurarono unanimemente di obbedire al figliuolo colla stessa fede, colla quale fino allora avevano obbedito al padre. Nel medesimo giorno veniva quegli investito dal re

Renato di tutti gli Stati e cariche e condotte già godute

da Jacopo (4).

Frattanto un nuovo e non più udito inganno aveva riunita la Romagna sotto gli artigli di Filippo Maria Visconti. Turpi cose narriamo, sperando che i posteri ne prendano motivo di compensarle con generose operazioni. Chè se cotale speranza non fosse, chi s'accingerebbe a svolgere cotesta storia d'Italia, dove il lavoro è immenso, l'onore poco, e il pericolo e il danno sovente gravissimi?

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Non aveva ancora Francesco Sforza dato compimento all'accordo di Lucca, che Niccolò Piccinino, tutto in vista pieno di rabbia, si era partito colle sue squadre dalla Lombardia, re, traversata la Emilia, e costeggiata Bologna, si era accampato a Camurata tra 24marzo Ravenna e Forli, quasi in aspettativa di qualche partito. Nei fatti, nei quotidiani colloquii, nelle lettere da lui inviate specialmente al Papa, immensa appariva la sua esacerbazione verso il duca di Milano e lo Sforza. ⚫ Questo essere stato, sclamava, il premio di tanti suoi sudori, di tanti pericoli, di tante vittorie: per questo avere combattuto e vinto sul Serchio, sull'Adda, sul Po, sul Tevere, e riportarne ancora nel collo e in tutta la persona moleste ferite: di tante fatiche durate a pro del Visconti, che altro rimanergli se non di dovere stentare la vita, correndo da soldo a soldo? Ben larghe ricompense apparecchiarsi a Sforza, pur testè mortal nemico del duca: al traditore le città di Lombardia, al traditore le grasse paghe della lega e di Milano assegnarsi; anzi fra poco il seggio supremo,

(1) A. di Costanzo, 404. 413.

anzi il comando di tutta la milizia, e mettergli sotto i vecchi capitani, che hanno vinto più battaglie ch' egli non abbia noverato anni di vita. Quanto a sẻ, volerla finita; difenda il nuovo campione colla fede pari all'esperienza il retaggio dei Visconti: a sè invecchiato nelle guerre garbare minor lustro, ma più sicuro da vergogna ed oltraggio; offrirsi perciò ai servigi della lega; e se quelle forze, che pur l'hanno tanto travagliata, valgono ancora qualche cosa, useralle tutte, onde sradicarle dalle viscere l'infame potenza sforzesca. In somma due beni in una impresa proponeva; cioè riacquistare al papa la Marca, e impedire a Sforza di soccorrere il duca di Milano.

Non è a dire se la bella offerta riuscisse gradita al sommo pontefice, ed ai Veneziani amici suoi. Tosto per dar cominciamento alla grande opera vengono consegnati al condottiero cinque mila ducati, e si rimette al suo arbitrio, o di militare a certo soldo in servizio della Chiesa, o di entrare con maggiore condotta capitano generale della repubblica. Ma egli frattanto a ben diverso e impreveduto fine lavorava. Mentre Roma e Venezia addormentate sopra fallaci lusinghe trascuravano le più necessarie cautele, fidi emissarii del Piccinino perlustravano sotto mille aspetti le città della Chiesa, e vi facevano ricerca dei malcontenti, e vi ravvivavano le sopite passioni di municipio o di fazione. Allora, cogliendo il destro, traevano in campo il nome del duca di Milano ed il valore delle sue squadre, e come protettore e difensore di libertà e di giustizia il mettevano in amore e maggio in desiderio. A un tratto il fiero inganno scoppiò. Spoleto e Bologna a furore di popolo si rubellarono;

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