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CAPITOLO TERZO

Dalla pace di Capriana alla morte del duca
Filippo Maria Visconti.

1441-1447.

ANT. CALDORA. FR. SFORZA.

I.

NICC. PICCININO.

Mentrechè sulle sponde del Mincio e dell'Arno il duca di Milano e le repubbliche di Venezia e di Firenze con nuove guerre e nuove paci si laceravano senza utile, senza gloria, senza grandi intenti, nella inferior parte dell'Italia precipitava a finale rovina la potenza di Renato d'Angiò. Aveva egli riposto le ultime sue speranze nella fazione dei Caldoresi: ma Antonio, il quale n'era rimasto capo dopo la morte da noi raccontata del padre suo Iacopo, era uomo di piccol cuore e di minor fede, lento e infingardo; insomma aveva in sè quanto bastava per condurre a perdizione qualsiasi partito che a lui si appoggiasse. Stimolato dal re Renato ad ire a liberar Napoli dall'assedio postole dagli Aragonesi, rispondeva: «i proprii affari ritenerlo assolutamente nell'Abruzzo: in ogni caso mancargli i denari, nè veder modo di trovarne venisse il re colà ad accertarsene in persona, e ad esigere i tributi»: e il buon Renato traversava con non più che cinquanta seguaci il campo nemico, e per pioggie, per venti, per nevi e per strade inospite e terribili, ora a piè, ora a cavallo, or combattendo

colla natura, ora co'villani, or cogli Aragonesi, si spingeva sino a Benevento, e colla fama delle proprie virtù (che è pure un validissimo strumento in buone mani) ritornava a divozione molte città, s'acquistava l'animo di molti baroni, ne riscuoteva una certa somma di denaro, e tosto la spediva al Caldora.

Alla fine costui, più per levarsi l'importunità delle A. 1440 altrui istanze, che la vergogna del proprio rifiuto, raggiunse il re, insieme con lui si recò ad assalire gli Aragonesi, i quali si erano fortificati presso al ponte della Tufara. Fu la fortuna propizia ai voti dell'Angioino: e già, smarrita l'ordinanza, e perdute le trinciere, i nemici ammassandosi a mano a mano attorno la lettiga del proprio re, si andavano lentamente ritirando. Ma quando altro più non rimaneva a farsi, che raccogliere il frutto della vittoria, ne interrompeva il corso il Caldora medesimo, il quale sopraffatto sia da naturale pusillanimità sia da perversa intenzione, faceva a un tratto suonare a raccolta, e colla spada sguainata sgridando e ferendo quelli dei suoi, che si mostravano più infervorati contro gli Aragonesi, li rimuoveva dal combattimento, sotto scusa, che la ritirata del nemico era un inganno, e che si era quel di fatto abbastanza. Questa cosa persuase il re Renato a provvedere più efficacemente alla propria salute. Quella sera stessa convocò a cena i capitani dell'esercito. Trascorse il convito lietamente: ma, tostochè furono levate le mense, il re con severo piglio si rivolse al Caldora. Cominciò dal rappresentargli in qual precipizio la sua timidità, oppur lentezza, per non chiamarla con pårole più gravi, avesse condotto le cose dello Stato; «pur oggi essersi di

leguata una chiara occasione di vincere, e questo per opera di lui, di lui testè onorato dell'ufficio di gran conestabile e di vicerè, ed investito di tutte le possessioni già godute dal padre suo: per cagion sua un re avere dovuto esporsi a mille stenti e pericoli: ora parer giusto, che quelle schiere, le quali delle regie entrate sono mantenute, a posta del re obbediscano: stia egli adunque prigioniero, finch'esse non abbiano giurato fede al vero loro principe. A questa intimazione elevossi nella sala un forte susurro somigliante a tumulto: tuttavia, dopo molte proteste, le soldatesche non meno che i capitani, giurarono conforme al volere del re. Allora Antonio Caldora venne rimesso in libertà, e spedito al governo dell' Abruzzo.

Ma non ha egli appena perduto di vista gli alloggiamenti, che pentesi del giuramento prestato, ritorna addietro, riunisce le sue squadre, le mena al re d'Aragona, e gliene rende omaggio. Credette cosi A. 1441 di togliersi dalla solita soggezione, e di avanzarsi in grazia ed in potenza: ma non tardò a provare, come il tradimento porti con sè il proprio castigo. Accolto freddamente dal re Alfonso, mal visto da tutti, incerto tra due fazioni delle quali l'una era stata tradita, l'altra era stata guerreggiata da lui, senza soldo, senza onori, dapprima ebbe a vedere la disfatta del proprio casato compita da quei medesimi Aragonesi, a' cui servigi era venuto; poscia, quando meno se lo aspettava, si vedeva spogliato di Bari, di Acquaviva e di altre terre molto importanti; e chi gliele rapiva era l'Orsini principe di Taranto e gran conestabile del re Alfonso. Ciò non di meno, posciachè il dado era

gettato, déliberò di non abbandonare i nuovi padroni. Prima di tutto inviò spontaneamente alla corte del re quasi in qualità di ostaggio il figliuol suo primogenito, e per levare del tutto ogni sospetto intorno alla propria fede, congiunse prestamente al resto dell'esercito le sue squadre. Ciò fatto, si fece animo a domandare al re Alfonso giustizia e risarcimento delle ingiurie ricevute. Il re non gli disse di no; ma con vani raggiramenti di parole tanto lo intrattenne, che alfine non ne uscì verun risultato.

Allora il Caldora, convinto di avere perduto un padrone senza acquistarne un altro, rivoltossi coi pensieri verso il primo, cioè Renato d'Angiò. A ciò lo instigava, oltre i suoi congiunti, anche Francesco Sforza; il quale, sbrigatosi colla pace di Capriana dagli affari della Lombardia, s'accingeva a entrare nel regno di Napoli col proposito di rilevarvi alquanto gli interessi proprii e quelli dell'Angioino. «Ora che un tanto condottiero sta per trasferire le armi sue vittoriose al soccorso del re Renato (cotesti erano i ragionamenti, coi quali si tentava l'animo debole del Caldora), a che servire un ingrato Catalano senza fede, circuito da un principe di Taranto e da un duca di Sessa mortali inimici del nome Caldorese? Oramai, stante il reo procedere del re Alfonso, essere le cose al termine, da non dover temere meno chi lo serve che chi lo guerreggia. Al contrario essere notoria la fede e la generosità del re Renato. A che dunque tardare a far ciò, che è via unica di scampo? Dopo alquanti indugi provenienti da ciò che il re Renato non si voleva fidare del Caldora, nè il Caldora del re Renato, si concluse, che questi

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