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Avevano i Fiorentini commesso il governo delle proprie genti a Pandolfo Malatesta, con autorità assoluta di capitano generale, ed avviso espresso di non uscire dalle frontiere, nè pigliare battaglia senza grave ragione o vantaggio. Perciò coll'esercito ben raccolto s'accinse egli a seguitare passo passo i muovimenti de' venturieri, che da Pratolino costeggiando il confine pisano si vennero a posare a Pontadera. Di costà in capo a cinque di levarono le tende per ritirarsi sul Lucchese; e già la pugna, che stante la vicinanza dei due eserciti s'era creduta inevitabile, pareva che dovesse essere differita, o tolta per sempre; quando ecco preceduto da parecchi trombetti entrar nel campo fiorentino un araldo con in mano una fronda spinosa, e sopravi un guanto lacero e sanguinente, e disfidare Malatesta a battaglia per parte del conte Lando. I Fiorentini onorarono il parlamentario con vino e con denari, e avendo senza indugio, anzi con molta festa accettato l'invito, si prepararono al combattimento. Ma che? sorto il giorno, Lando all'osservare la bella disposizione de' nemici sbigotti; e non solo declinò di venire alla pruova delle armi, ma ritirossi in un certo sito cinto d'alte rupi e burroni, e con opere di mano vi si mise in gran fretta al coperto da qualsiasi insulto. Pandolfo s'accontentò d'accamparsegli dappresso a mezzo miglio, e con forti scorrerie de' suoi Ungheri interrompergli le vittovaglie. Questo partito ridusse in breve i venturieri oltremontani alla necessità o di uscire a combattere, oppure di fuggire. Fuggirono 23 lug). adunque a rotta, sempre inseguiti dal Malatesta fino 1359 sul territorio di Lucca ; e il campo delle mosche (cosi aveva nome quel luogo) diventò famoso per aver ve

duto disfatta dagli sforzi d'una piccola repubblica quella gran compagnia, da cui le signorie più potenti d'Italia non vergognavano di ricomprarsi a prezzo d'oro e di umiliazioni.

Stanchi, avviliti, bisognosi di tutto, i seguaci del conte Lando si ricolsero sulle rive del Serchio al ponte a Sanquirico. Di quivi molti chi verso un luogo, chi verso l'altro s'incamminarono : ma i più, impetratane licenza da' Genovesi, s'affilarono uomo innanzi uomo pe' disagiosi valichi dell'Apennino, e con incredibile travaglio si calarono in Monferrato agli stipendii di quel marchese. Ma nemmeno sulle sponde del Po fu il procedere della gran compagnia diverso dall'usato. Dopo avere soccorso molto debolmente il marchese di Monferrato contro Bernabò Visconti signore di Milano, prima il conte Lando, poscia ottobre Anichino Bongarden, calpestando fede, giuramenti, e gratitudine verso un principe che aveva testè sottratti entrambi da una certa rovina, abbandonarono il marchese per unirsi a bandiere spiegate col Visconti (1). Nè qui si rimasero le defezioni di Anichino mandato in Romagna da Bernabò a guerreggiarvi il legato della Chiesa, si parti dal primo per servire al secondo; quindi, fatta una compagnia di Ungheri e di Tedeschi, costrinse anche il legato a ricomprarsi, e mezzo tra amico e nemico scorse i territorii d'Urbino e di Ravenna, e passò nel regno di Napoli (2).

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(1) M. Vill. IX. 42. 45. 50-57. —Chr. Placent. 504 (t. XVI). -Corio, p. III. p. 459.

(2) Ghirardacci, St. di Bol. L. XXIII. 246.—Joh. de Ki

1360

Era nell' Abruzzo citeriore, non guari lunge da dicemb. Sulmona, il castello di S. Martino, fortissimo per arte e per natura: Anichino avvicinovvi le squadre, e mostrando d'essere ridotto all'estremo della fame, richiese umilmente i terrazzani a volergli somministrare i viveri a pronti contanti. La buona gente al vedersi pagare i pani un gigliato l'uno, smorzò coll'avarizia la paura; e a uno, a due, a tre i venturieri colle mani piene d'oro furono ricevuti amichevolmente nel castello. Ma non si tosto questi si veggono in numero sufficiente, che s'avventano repentinamente sugli abitatori, rompono le porte, introduconvi gli altri compagni, ed in un batter d'occhio si impadroniscono d'ogni cosa (1). Diventò allora il castello di S. Martino il quartiere generale di una grandissima compagnia; ma per poco tempo; imperocchè gli Ungheri, sedotti per trentatrè migliaia di fiorini dal re di Napoli, non solo si scostarono dal Bongarden, ma corsero ad assediarlo in Atella, terra già prima da lui rapita al duca di Durazzo. Alla fine la noia di quel vano assedio disperse non meno gli assaliti che gli assalitori, e qual drappello di essi passò nella Marca e nella Romagna, quale tornò in patria al di là dalle Alpi; molti si fermarono in quelle provincie a servigio del re, od a strazio de' popoli. Anichino, oramai ridotto al verde di genti e di provvigioni, uscì per accordo dal regno, e traversando una parte della

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kullew cit. p. III. c. XXXI. p. 189.-P. Azar. Chr. p. 391 (t. XVI). Corio, p. III. p. 460. — M. Vill. IX. 111. X. 7. (3) M. Vill. X. 10. 15. 17. 19. 28. 50.

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Toscana portossi nuovamente a Bologna agli stipendii di Bernabò Visconti (4).

Ma frattanto la prima defezione di lui e del conte Lando aveva precipitato il marchese di Monferrato ad assoldare alcune compagnie non solo composte di stranieri, ma in estranee contrade raccolte e ordinate. La gravità del fatto domanda, che esaminiamo la cosa più dall'alto.

(1) M. Vill. X. 86. 92. 99.

CAPITOLO QUINTO

Le Compagnie Inglesi e Brettone
A. 1361-1377.

ANICHINO BONGARDEN - ALberto Sterz
GIOVANNI ACUTO.

I. Origine e fatti delle compagnie di ventura in Francia.
Imprese di Arnaldo di Cervoles. Battaglia di Brignais.
Le compagnie in Provenza.

II. Il marchese di Monferrato le fa venire in Italia. Milizia degli Inglesi. Loro portamenti in Lombardia. Morte del conte Lando.

III. Origine e vicende della compagnia del Cappelletto. Gli Inglesi in Toscana sotto l'Acuto. Il Bongarden e lo Sterz dan forma alla compagnia della Stella. Loro imprese. Supplizio dello Sterz.

IV. Ambrogio Visconti mette insieme la compagnia di S. Giorgio. Sue vicende e disfatta. Imprese di Lucio Lando e dell'Acuto, che abbandona i Visconti.

V. Giovanni Acuto fa la Compagnia santa. Sue fazioni. Strage di Faenza.

VI. Vicende delle compagnic in Francia. Si propone di riu

nirle tutte in una Crociata. Lettera di s. Caterina a Giovanni Acuto. Il Papa assolda i Brettoni e li manda in Italia.

VII. Crudeltà de' Brettoni nella Romagna. Duello e vittoria di due Italiani contro due di essi. Eccidio di Cesena.

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