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Allor vid' io maravigliar Virgilio
Sopra colui ch'era disteso in croce
Tanto vilmente nell' eterno esilio.

Poscia drizzò al frate cotal voce:
Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
S'alla man destra giace alcuna foce,
Onde noi ambedue possiam uscirei
Senza costringer degli angeli neri,
Che vegnan d'esto fondo a dipartirci.
Rispose adunque: Più che tu non speri
S'appressa un sasso che dalla gran cerchia
Si muove, e varca tutti i vallon feri,

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Salvo ch'a questo è rotto, e nol coperchia. Montar potrete su per la ruina,

Chè giace in costa, e nel fondo soperchia:
Lo Duca stette un poco a testa china,

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Poi disse: Mal contava la bisogna
Colui che i peccator di la uncina.
E'l frate: I'udi già dire a Bologna
Del diavol vizii assai, tra' quali udì
Ch'egli è bugiardo, e padre di menzogna.
Appresso, il Duca a gran passi sen gì,
Turbato un poco d'ira nel sembiante:
Ond' io dagl' incarcati mi parti'

Dietro alle poste delle care piante.

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CANTO VENTESIMOQUARTO.

ARGOMENTO.

Esce Dante dalla sesta bolgia, e superato coll'aiuto deila sua guida un luogo rovinato, sen passa nella settima, dove ritrova una orribile calca di serpenti dai quali erano tormentati i Ladri. Quivi egli osserva uno strano accidente avvenuto ad uno di que' dannati, che era Vanni Fucci, con cui i Poeti favellano.

In quella parte del giovinetto anno
Che 'l Sole i crin sotto l'Aquario tempra,
E già le notti al mezzo di' sen vanno:
Quando la brina in sulla terra assempra
L'imagine di sua sorella bianca,
Ma poco dura alla sua penna tempra;
Lo villanello, a cui la roba manca,
Si leva e guarda e vede la campagna
Biancheggiar tutta, ond' ei si batte l'anca;
Ritorna a casa, e qua e là si lagna,
Come 'l tapin che non sa che si faccia;
Poi riede e la speranza ringavagna,

Veggendo 'l mondo aver cangiata faccia
In poco d'ora, e prende suo vincastro,
E fuor le pecorelle a pascer caccia:

Così mi fece sbigottir lo Mastro,
Quand' io gli vidi st turbar la fronte,
E cost tosto al mal giunse lo 'mpiastro.

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Chè come noi venimmo al guasto ponte,
Lo Duca a me si volse con quel piglio
Dolce ch'io vidi in prima a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
Eletto seco, riguardando prima
Ben la ruina, e diedemi di piglio.

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E come quei che adopera ed istima,
Che sempre par che innanzi si provveggia;
Così, levando me su vêr la cima

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D'un ronchione, avvisava un'altra scheggia
Dicendo: Sopra quella poi t'aggrappa;
Ma tenta pria se è tal ch'ella ti reggia.
Non era via da vestito di cappa,
Chè noi appena, ei lieve, ed io sospinto,
Potevam su montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto,

Più che dall' altro, era la costa corta,
Non so di lui, ma io sarei ben vinto,

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Ma perchè Malebolge in vêr la porta
Del bassissimo pozzo tutta pende.
Lo sito di ciascuna valle porta

Che l'una costa surge e l'altra scende:
Noi pur venímmo alfine in su la punta
Onde l'ultima pietra si scoscende.

La lena m' era del polmon sì munta Quando fui su, ch'io non potea più oltre. Anzi mi assisi nella prima giunta.

Omai convien che tu così ti spoltre, Disse 'l Maestro, chè, seggendo in piuma, In fama non si vien, nè sotto coltre:

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Sanza la qual chi sua vita consuma,
Cotal vestigio in terra di sè lascia,
Qual fumo in aere od in acqua la schiuma.
E però leva su, vinci l'ambascia

Con l'animo che vince ogni battaglia,
Se col suo grave corpo non s'accascia.
Più lunga scala convien che si saglia:
Non basta da costoro esser partito:
Se tu m'intendi, or fa si che ti vaglia.
Leva' mi allor, mostrandomi fornito
Meglio di lena ch'i' non mi sentia,
E dissi: Va, ch'i' son forte ed ardito.

Su per lo scoglio prendemmo la via,
Ch'era ronchioso, stretto e malagevole,
Ed erto più assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;
Onde una voce uscio dall'altro fosso
A parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra 'I dosso
Fossi dell'arco già che varca quivi;
Ma chi parlava ad ira parea mosso.

I' era volto in giù; ma gli occhi vivi
Non potean ire al fondo per l'oscuro :
Perch'io Maestro, fa che tu arrivi

Dall'altro cinghio, e dismontiam lo muro:
Chè com'i' odo quinci, e non intendo,
Così giù veggio, e niente affiguro.
Altra risposta, disse, non ti rendo,
Se non lo far: chè la dimanda onesta
Si dee seguir con l'opera tacendo.

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Noi discendemmo il ponte dalla testa,
Ove s'aggiunge cell'ottava ripa,
E poi mi fu la bolgia manifesta:
E vidivi entro terribile stipa
Di serpenti, e di sì diversa mena

Che la memoria il sangue ancor mi scipa. ·
Più non si vanti Libia con sua rena;
Chè, se chelidri, iaculi e faree

Produce, è ceneri con anfesibena;
Ne tante pestilenzie nè sì ree

Mostrò giammai con tutta l'Etiopia,

Nè con ciò che di sopra il mar rosso ec.
Tra questa cruda e tristissima copia
Correvan genti nude e spaventate,
Senza sperar pertugio o elitropia.
Con serpi le man dietro avean legate:
Quelle ficcavan per le ren la coda
El capo, ed eran dinanzi aggroppate.

Ed ecco ad un, ch'era da nostra proda,
S'avventò un serpente, che 'l trafisse.
Là dove il collo alle spalle s'annoda.

Ne O si tosto mai, nè I si scrisse,
Com'ei s'accese e arse, e cener tutto
Convenne che cascando divenisse:

E poi che fu a terra si distrutto,
La cener si raccolse per sè stessa,
E in quel medesmo ritorno di butto:
Così per li gran savi si confessa
Che la Fenice muore e poi rinasce,'
Quando al cinquecentesimo anno appressa.

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