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Qual sovra 'l ventre, e qual sovra le spallè L'un dell' altro giacea, e qual carpone Si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam senza sermone,

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Guardando ed ascoltando gli ammalati,

Che non potén levar le lor persone.

I'vidi duo sedere a sè poggiati,

Come a scaldar s' appoggia tegghia a tegghia,
Dal capo a' piè di schianze maculati :
E non vidi giammai menare stregghia
Da ragazzo aspettato dal signorso,
Nè da colui che mal volentier vegghia;

Come ciascun menava spesso il morso
Dell'unghie sovra sè per la gran rabbia
Del pizzicor, che non ha più soccorso.

E si traevan giù l' unghie la scabbia,
Come coltel di scardova le scaglie,
O d'altro pesce che più larghe l'abbia.

O tu che colle dita ti dismaglie,
Cominciò 'l Duca mio ad un di loro,
E che fai d'esse talvolta tanaglie,

Dimmi s'alcun Latino è tra costoro
Che son quinc' entro, se l'unghia ti basti
Eternalmente a cotesto lavoro.

Latin sem noi, che tu vedi si guasti
Qui ambodue, rispose l' un piangendo:
Ma tu chi se', che di noi dimandasti?

E 'l Duca disse: l' son un che discendo
Con questo vivo giù di balzo in balzo,
E di mostrar l'Inferno a lui intendo.

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Allor si ruppe lo comun rincalzo;
E tremando ciascuno a me si volse
Con altri che l'udiron di rimbalzo;

Lo buon Maestro a me tutto s' accolse,
Dicendo: Di' a lor ciò che tu vuoli.
Ed io incominciai, poscia ch' ei volse:
Se la vostra memoria non s'imboli
Nel primo mondo dall'umane menti,
Ma s' ella viva sotto molti soli,

Ditemi chi voi siete e di che genti:
La vostra sconcia e fastidiosa pena
Di palesarvi a me non vi spaventi.

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l' fui d' Arezzo, ed Albero da Siena, Rispose l'un, mi fe mettere al fuoco; Ma quel perch' io mori' qui non mi mena. Ver è ch' io dissi a lui, parlando a giuoco:

I'mi saprei levar per l'aere a volo:

E quei ch' avea vaghezza e senno poco,

Volle ch' io gli mostrassi l'arte, e solo 115. Perch' i' nol feci Dedalo, mi fece

Ardere a tal che l' avea per figliuolo.

Ma nell'ultima bolgia delle diece
Me per alchimia che nel mondo usai,
Dannò Minos, a cui fallir non lece.

Ed io dissi al Poeta: Or fu giammai
Gente si vana come la Sanese?
Certo non la Francesca si d'assai.

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Onde l'altro lebbroso che m' intese, Rispose al detto mio: Tranne lo Stricca, 125 Che seppe far le temperate spese;

E Niccolò, che la costuma ricca
Del garofano prima discoperse
Nell' orto, dove tal seme s'appicca;

E tranne la brigata, in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fronda,
E l'Abbagliato il suo senno proferse.

Ma perchè sappi chi si ti seconda
Contra i Sanesi, aguzza vèr me l'occhio
Si che la faccia mia ben ti risponda:

Si vedrai ch' i' son l'ombra di Capocchio,
Che falsai li metalli con alchimia;
E ten dee ricordar, se ben t'adocchio,
Com' i' fui di natura buona scimia.

CANTO TRENTESIMO

ARGOMENTO

Tratta il Poeta di altri Falsatori, cioè di quelli che simularono l'altrui persona; e questi correvano mordendosi rabbiosamente: dice poi, come si mise a guardarei Falsatori della moneta, i quali erano affitti dall'idropisia. Vede infine coloro, che avevano falsata la verità; e questi erano offesi da acutissima febbre.

Nel tempo che Giunone era crucciata Per Semelè contra 'l sangue tebano, Come mostrò già una ed altra fiata,

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Atamante divenne tanto insano,
Che veggendo la moglie co' duo figli
Andar carcata da ciascuna mano,
Gridò: Tendiam le reti, sì ch'io pigli
La lionessa e i lioncini al varco:
E poi distese i dispietati artigli,

Prendendo l'un ch' avea nome Learco,
E rotollo, e percosselo ad un sasso;
E quella s' annegò con l'altro incarco.

E quando la fortuna volse in basso
L'altezza de' Troian che tutto ardiva,
Sì che insieme col regno il re fu casso;
Ecuba trista misera e cattiva,
Poscia che vide Polisena morta,
E del suo Polidoro in su la riva
Del mar si fu la dolorosa accorta,
Forsennata latrò sì come cane;
Tanto il dolor le fe la mente torta.

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Ma nè di Tebe furie nè Troiane
Si vider mai in alcun tanto crude,
Non punger bestie, non che membra umane.
Quant' io vidi due ombre smorte e nude, 25
Che mordendo correvan di quel modo,
Che il porco quando del porcil si schiude.
L'una giunse a Capocchio, ed in sul nodo
Del collo l'assannò, si che, tirando,
Grattar gli fece 'l ventre al fondo sodo.

E l'Aretin, che rimase tremando,
Mi disse: Quel folletto è Gianni Schicchi,
E va rabbioso altrui così conciando.

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Oh, diss' io lui, se l'altro non ti ficchi Li denti addosso, non ti sia fatica

A dir chi è, pria che di qui si spicchi.

Ed egli a me: Quell'è l' anima antica
Di Mirra scelerata, che divenne
Al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar con esso così venne,

Falsificando sè in altrui forma;

Come l'altro, che in là sen va, sostenne,
Per guadagnar la donna della torma,
Falsificare in sè Buoso Donati,
Testando, e dando al testamento norma.
E poi che i duo rabbiosi fur passati,
Sovra i quali io avea l'occhio tenuto,
Rivolsilo a guardar gli altri malnati.
I'vidi un fatto a guisa di liuto,
Pur ch' egli avesse avuta l'anguinaia
Tronca dal lato che l'uomo ha forcuto.
La grave idropisia che si dispaia

Le membra con l'umor che mal converte,
Che 'l viso non risponde alla ventraia,
Faceva lui tener le labbra aperte,
Come l'etico fa, che per la sete

L'un verso 'l mento e l'altro in su riverte.
O voi, che senza alcuna pena siete
(E non so io perchè ) nel mondo gramo,
Diss' egli a noi, guardate e attendete
Alla miseria del maestro Adamo:
Io ebbi vivo assai di quel ch'i' volli,
E ora, lasso! un gocciol d' acqua bramo.

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