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Quand'io ebbi d'intorno alquanto visto,
Volsimi a' piedi, e vidi due si stretti,
Che 'l pel del capo avieno insieme misto.
Ditemi voi, che si stringete i petti,
Diss'io, chi sete. E quei piegaro i colli;
E poi ch' ebber li visi a me eretti,

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Gli occhi lor, ch' eran pria pur dentro molli, Gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse Le lagrime tra essi, e riserrolli:

Legno con legno spranga mai non cinse
Forte così; ond' ei come duo becchi,
Cozzaro insieme: tant' ira li vinse.

Ed un, ch' avea perduti ambo gli orecchi
Per la freddura, pur col viso in giue
Disse: Perchè cotanto in noi ti specchi ?

Se vuoi saper chi son cotesti due,
La valle, onde Bisenzio si dichina,
Del padre loro Alberto e di lor fue.

D'un corpo usciro: e tutta la Caina Potrai cercare, e non troverai ombra Degna più d'esser fitta in gelatina:

Non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra

Con esso un colpo, per la man d'Artù:
Non Focaccia: non questi che m' ingombra
Col capo sì, ch' i' non veggio oltre più,
E fu nomato Sassol Mascheroni :

Se Tosco se', ben sa'omai chi fu.

E perch' non mi metti in più sermoni,
Sappi ch'i' fui il Camicion de' Pazzi,
Ed aspetto Carlin che mi scagioni.

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Poscia vid' io mille visi cagnazzi
Fatti per freddo: onde mi vien ribrezzo,
E verrà sempre, de' gelati guazzi.

E mentre ch' andavamo in vêr lo mezzo,
Al quale ogni gravezza si rauna,
Ed io tremava nell'eterno rezzo;

Se voler fu, o destino, o fortuna,
Non so ma passeggiando tra le teste,
Forte percossi il piè nel viso ad una.

Piangendo mi sgridò: Perchè mi peste?
Se tu non vieni a crescer la vendetta
Di Mont' Aperti, perchè mi moleste?
Ed io: Maestro mio, or qui m'aspetta,
Si ch' i' esca d'un dubbio per costui:
Poi mi farai, quantunque vorrai, fretta.
Lo Duca stette; ed io dissi a colui

Che bestemmiava duramente ancora:
Qual se' tu che così rampogni altrui ?
Or tu chi se', che vai per l' Antenora
Percotendo, rispose, altrui le gote
Si, che se fossi vivo, troppo fora?
Vivo son io, e caro esser ti puote,
Fu mia risposta, se domandi fama,
Ch'io metta 'l nome tuo tra l'altre note.

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Ed egli a me: Del contrario ho io brama:

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Levati quinci e non mi dar più lagna;
Chè mal sai lusingar per questa lama.
Allor lo presi per la cuticagna,
E dissi: E' converrà che tu ti nomi,
O che capel qui su non ti rimagna.

Ond' egli a me: Perchè tu mi dischiomi, 100 Nè ti dirò chi io sia, nè mostrerolti, Se mille fiate in sul capo mi tomi.

Io avea già i capelli in mano avvolti,
E tratti glien avea più d'una ciocca,
Latrando lui con gli occhi in giù raccolti; 105
Quando un altro gridò: Che hai tu, Bocca?
Non ti basta sonar con le mascelle,
Se tu non latri? qual diavol ti tocca?
Omai, diss'io, non vo' che tu favelle,
Malvagio traditor, ch' alla tua onta
Io porterò di te vere novelle.

Va via, rispose, e ciò che tu vuoi, conta!
Ma non tacer, se tu di qua entr' eschi,
Di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.
Ei piange qui l'argento de' Franceschi:
I' vidi, potrai dir, quel da Duera
Là dove i peccatori stanno freschi.
Se fossi dimandato altri chi v' era,
Tu hai da lato quel di Beccheria,
Di cui segò Fiorenza la gorgiera.

Gianni del Soldanier credo che sia
Più là con Ganellone e Tribaldello,
Ch'apri Faenza quando si dormia.

Noi eravam partiti già da ello,
Ch'i' vidi duo ghiacciati in una buca,
Si che l' un capo all'altro era cappello:

E come 'l pan per fame si manduca,
Così 'l sovran li denti ail' altro pose
Là 've 'l cervel s'aggiunge colla nuca.

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Non altrimenti Tideo si rose

Le tempie a Menalippo per disdegno,
Che quei faceva 'l teschio e l'altre cose.
O tu che mostri per si bestial segno
Odio sovra colui che tu ti mangi,

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Dimmi'l perchè, diss' io, per tal convegno: 135
Che se tu a ragion di lui ti piangi,
Sappiendo chi voi siete, e la sua pecca,
Nel mondo suso ancor io te ne cangi,
Se quella con ch'io parlo non si secca.

CANTO TRENTESIMOTERZO.

ARGOMENTO.

L'addolorato Ugolino racconta la crudele sua morte, e de' suoi figliuoli: indi i Poeti passano alla terza partizione, Tolommea appellata, dove stanno quelli che tradirono i lor confidenti: e Dante fra questi parla con Alberigo, dal quale intende, che l'anima del traditore spesse fiate cade in quel luogo, prima ancor della morte.

La bocca sollevò dal fiero pasto
Quel peccator, forbendola a'capelli
Del capo ch'egli avea di retro guasto.

Poi cominciò: Tu vuoi ch' io rinnovelli
Disperato dolor che'l cor mi preme,
Già pur pensando, pria ch'i' ne favelli.

Ma se le mie parole esser den seme
Che frutti infamia al traditor ch' i' rodo,
Parlare e lagrimar vedrai insieme.

I' non so chi tu sie, nè per che modo
Venuto se' quaggiù; ma Fiorentino
Mi sembri veramente quand' i' t' odo.
Tu dei saper ch'i' fui 'l conte Ugolino,
E questi l'Arcivescovo Ruggeri:
Or ti dirò perch' io son tal vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
Fidandomi di lui, io fossi preso
E poscia morto, dir non è mestieri.
Però, quel che non puoi avere inteso,
Cioè come la morte mia fu cruda,
Udirai, e saprai se m'ha offeso.

Breve pertugio dentro dalla muda
La qual per me ha'l titol della fame,
E in che conviene ancor ch'altri si chiuda,
M' avea mostrato per lo suo forame
Più lune già, quand' i' feci 'l mal sonno,
Che del futuro mi squarciò il velame.

Questi pareva a me maestro e donno,
Cacciando il lupo e i lupicini al monte,
Per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte,
Guallandi con Sismondi e con Lanfranchi
S'avea messi dinanzi dalla fronte.

In picciol corso mi pareano stanchi Lo padre e i figli, e con l'agunte scane Mi parea lor veder fender li fianchi.

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