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A quella foce ha egli or dritta l'ala;
Perocchè sempre quivi si raccoglie,
Qual verso d'Acheronte non si cala.

Ed io: Se nuova legge non ti toglie
Memoria o uso all' amoroso canto,
Che mi solea quetar tutte mie voglie,

Di ciò ti piaccia consolare alquanto
L'anima mia, che, con la sua persona
Venendo qui, è affannata tanto.

Amor che nella mente mi ragiona,
Cominciò egli allor si dolcemente,
Che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio Maestro, ed io, e quella gente
Ch' eran con lui, parevan sì contenti,
Com' a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi ed attenti
Alle sue note, ed ecco il veglio onesto,
Gridando: Che è ciò, spiriti lenti?

Qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio,
Ch'esser non lascia a voi Dio manifesto.

Come quando, cogliendo biada o loglio,
Gli colombi adunati alla pastura,
Queti, senza mostrar l'usato orgoglio,
Se cosa appare ond'elli abbian paura,
Subitamente lasciano star l'esca,
Perchè assaliti son da maggior cura;

Così vid' io quella masnada fresca
Lasciar il canto, e fuggir vêr la costa,
Com'uom che va, nè sa dove riesca :

Nè la nostra partita fu men tosta.

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CANTO TERZO.

ARGOMENTO.

S'inviano i Poeti verso l'alto monte del Purgatorio, e giunti alle falde vedono l'anime dei Seomunicati, ch'erano morti col pentimento, ed una di loro, cioè Manfredi, favella con Dante, e gli dice, come quelli, che vissuti erano fino alla morte nelle censure della Chiesa, doveano ivi aspettar certo tempo prima di poter andare a purgarvisi.

Avvegnachè la subitana fuga
Dispergesse color per la campagna,
Rivolti al monte, ove ragion ne fruga:
lo mi ristrinsi alla fida compagna:

E come sare' io senza lui corso ?
Chi m'avria tratto su per la montagna ?
Ei mi parea da sè stesso rimorso:
O dignitosa coscienza e netta,
Come t'è picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciâr la fretta,
Che l'onestade ad ogni atto dismaga,
La mente mia, che prima erá ristretta,
Lo intento rallargò, sì come vaga,
E diedi il viso mio incontro al poggio,
Che inverso il ciel più alto si dislaga.

Lo Sol, che dietro flammeggiava roggio,
Rotto m' era dinanzi, alla figura

Ch'aveva in me de' suoi raggi l'appoggio.

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Io mi volsi da lato con paura D'essere abbandonato, quando i' vidi Solo dinanzi a me la terra oscura:

E'l mio Conforto: Perchè pur diffidi, A dirmi cominciò tutto rivolto;

Non credi tu me teco, e ch'io ti guidi?

Vespero è già colà, dov'è sepolto
Lo corpo, dentro al quale io facev' ombra:
Napoli l'ha, e da Brandizio è tolto.

Ora, se innanzi a me nulla s'adombra,
Non ti maravigliar più che de' cieli,
Che l'uno all' altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti e caldi e gieli
Simili corpi la Virtù dispone,

Che come fa non vuol ch'a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
Possa trascorrer la infinita via,

Che tiene una sustanzia in tre persone.
State contenti, umana gente al quia;
Chè se potuto aveste veder tutto,
Mestier non era partorir Maria;

E disiar vedeste senza frutto
Tai, che sarebbe lor disio quetalo,
Ch' eternalmente è dato lor per lutto.
Io dico d'Aristotile e di Plato,

E di molti altri. E qui chinò la fronte;
E più non disse, e rimase turbato.

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Noi divenimmo intanto appiè del monte: 45

Quivi trovammo la roccia sì erta,

Che indarno vi sarien le gambe pronte.

Tra Lerici e Turbia, la più diserta, La più rotta ruina è una scala, Verso di quella, agevole ed aperta.

Or chi sa da qual man la costa cala,
Disse'l Maestro mio fermando il passo,
Sì che possa salir chi va senz' ala ?

E mentre che, tenendo il viso basso,
Esaminava del cammin la mente,
Ed io mirava suso intorno al sasso,

Da man sinistra m'apparì una gente
D'anime, che movieno i piè vêr noi,
E non pareva, sì venivan lente.

Leva, dissi al Maestro, gli occhi tuoi: Ecco di qua chi ne darà consiglio, Se tu da te medesmo aver nol puoi. Guardommi allora, e con libero piglio Rispose: Andiamo in là, ch' ei vengon piano; E tu ferma la speme, dolce figlio. Ancora era quel popol di lontano,

I' dico dopo i nostri mille passi,

Quanto un buon gittator trarria con mano;
Quando si strinser tutti a' duri massi
Dell'alta ripa, e stetter fermi e stretti,
Come a guardar, chi va dubbiando, stassi.
O ben finiti, o già spiriti eletti,
Virgilio incominciò, per quella pace
Ch'io credo che per voi tutti s'aspetti,
Ditene dove la montagna giace,

Sì che possibil sia l'andare in suso;
Che'l perder tempo a chi più sa più spiace.

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Come le pecorelle escon del chiuso
Ad una, a due, a tre, e l' altre stanno
Timidette atterrando l'occhio e 'l muso,

E ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
Addossandosi a lei s' ella s'arresta,
Semplici e quete, e lo 'mperchè non sanno :
Si vid' io mover, a venir, la testa
Di quella mandria fortunata allotta,
Pudica in faccia, e nell'andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta

La luce in terra dal mio destro canto,
Si che l'ombra era da me alla grotta,

Ristaro, e trasser sè indietro alquanto;
E tutti gli altri che venieno appresso,
Non sappiendo il perchè, fero altrettanto.

Senza vostra dimanda io vi confesso,
Che questi è corpo uman che voi vedete,
Per che il lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate; ma credete,
Che, non senza virtù che dal ciel vegna,
Cerca di soverchiar questa parete.

Cosi'l Maestro. E quella gente degna,
Tornate, disse, intrate innanzi dunque,
Co'dossi delle man facendo insegna.

Ed un di loro incominciò: Chiunque
Tu se', così andando volgi il viso,
Pon mente, se di là mi vedesti unque.

Io mi volsi vêr lui, e guardail fiso:
Biondo era e bello, di gentile aspetto;
Ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.

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