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Vidi che li non si quetava il core,
Nè più salir potiesi in quella vita;
Perchè di questa in me s'accese amore.
Fino a quel punto misera e partita
Da Dio anima fui, del tutto avara:
Or, come vedi, qui ne son punita.
Quel ch'avarizia fa. qui si dichiara
In purgazion dell'anime converse,
E nulla pena il monte ha più amara.
Si come l'occhio nostro non s'aderse
In alto, fisso alle cose terrene,
Così giustizia qui a terra il merse.

Come avarizia spense a ciascun bene
Lo nostro amore, onde operar perdèsi,
Così giustizia qui stretti ne tiene

Ne' piedi e nelle man legati e presi; E quanto fia piacer del giusto Sire, Tanto staremo immobili e distesi.

Io m'era inginocchiato, e volea dire; Ma com' io cominciai, ed ei s'accorse, Solo ascoltando, del mio riverire:

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Qual cagion, disse, in giù così ti torse?
Ed io a lui: Per vostra dignitate
Mia coscienza dritta mi rimorse.

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Drizza le gambe, e levati su, fra'e, Rispose; non errar, conservo sono Teco e con gli altri ad una potestate.

Se mai quel santo evangelico suono, Che dice Neque nubent, intendesti, Ben puoi veder perch'io così ragiono.

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Vattene omai; non vo' che più t'arresti,
Chè la tua stanza mio pianger disagia,
Col qual maturo ciò che tu dicesti.

Nepote ho io di là c'ha nome Alagia,
Buona da sè, purchè la nostra casa
Non faccia lei per esempio malvagia;
E questa sola m'è di là rimasa.

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CANTO VENTESIMO

ARGOMENTO.

Dante seguitando con la sua scorta, udi uno spirito the rammentava esempi di Poverta, dal quale, fra le altre cose, intese che la notte dall' anime ripetcansi esempi d' Avarizia. Da questo poi dipartiu sentirono tremare il monte, e l'anime cantar gloria a Dio, depo di che ripresero nuovamente il cammino.

Contra miglior voler, voler mal pugna;
Onde contra il piacer mio, per piacerii,
Trassi dell' acqua non sazia la spugna.
Mossimi, e il Duca mio si mosse per li
Luoghi spediti pur lungo la roccia,
Come si va per muro stretto a'merli;

Che la gente che fonde a goccia a goccia
Per gli occhi il mal che tutto il mondo occupa,
Dall'altra parte in fur troppo s'approccia.

Maledetta sie tu, antica lupa,

Che più che tutte l'altre bestie hai preda,
Per la tua fame senza fine cupa!

O ciel, nel cui girar par che si creda
Le condizion di quaggiù trasmutarsi,
Quando verrà per cui questa disceda?

Noi andavam co' passi lenti e scarsi, Ed io attento all'ombre ch'i' sentia Pietosamente pianger e lagnarsi ·

E per ventura udi': Dolce Maria: Dinanzi a noi chiamar così nel pianto, Come fa donna che in partorir sia:

E seguitar: povera fosti tanto, Quanto veder si può per quell'ospizio, Ove sponesti il tuo portato santo.

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Seguentemente intesi: 0 buon Fabrizio,

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Con povertà volesti anzi virtute,
Che gran ricchezza posseder con vizio.
Queste parole m'eran sì piaciute,
Ch'i' mi trassi oltre per aver contezza
Di quello spirto, onde parean venute.

Esso parlava ancor della larghezza
Che fece Niccolao alle pulcelle,
Per condurre ad onor la giovinezza.
O anima, che tanto ben favelle,
Dimmi chi fosti, dissi, e perchè sola
Tu queste degne lode rinnovelle ?

Non fla senza mercè la tua parola,
S'i' ritorno a compiér lo cammin corto
Di quella vita ch' al termine vola

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Ed egli: I'ti dirò, non per conforto
Ch'io attenda di là, ma perchè tanta
Grazia in te luce prima che sie morto.
I' fui radice della mala pianta,
Che la terra cristiana tutta aduggia
Si, che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio, Guanto, Lilla e Bruggia
Potesser, tosto ne saria vendetta;
Ed io la chieggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di là Ugo Ciapetta:
Di me son nati i Filippi e i Luigi,
Per cui novellamente è Francia retta.
Figliuol fui d'un beccaio di Parigi.
Quando li regi antichi venner meno
Tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi,
Trova'mi stretto nelle mani il freno
Del governo del regno, e tanta possa
Di nuovo acquisto, e si d'amici pieno,
Ch'alla corona vedova promossa
La testa di mio figlio fu, dal quale
Cominciar di costor le sacrate ossa.
Mentre che la gran dote Provenzale
Al sangue mio non tolse la vergogna,
Poco valea, ma pur non facea male.

Li cominciò con forza e con menzogna
La sua rapina; e poscia per ammenda,
Ponti e Normandia prese, e Guascogna.

Carlo venne in Italia, e per ammenda, Vittima fe di Curradino; e poi

Ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

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Tempo vegg'io non molto dopo ancoi Che tragge un altro Cario fuor di Francia, Per far conoscer meglio e sè e i suoi.

Senz'arme n'esce, e solo con la lancia Con la qual giostrò Giuda; e quella ponta Sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia. Quindi non terrà, ma peccato ed onta Guadagnerà, per sè tanto più grave, Quanto più lieve simil danno conta.

L'altro, che già uscì preso di nave, Veggio vender sua figlia, e patteggiarne, Come fan li corsar dell'altre schiave.

O avarizia, che puoi tu più farne,
Poi c'hai il sangue mio a te si tratto,
Che non si cura della propria carne?

Perchè men paia il mal futuro e il fatto,
Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,
E nel Vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta esser deriso;
Veggio rinnovellar l'aceto e il fele,
E tra nuovi ladroni essere anciso.

Veggio il nuovo Pilato si crudele,
Che ciò nol sazia, ma, senza decreto,
Porta nel tempio le cupide vele.

O Signor mio, quando sarò io lieto
A veder la vendetta, che nascosa
Fa dolce l'ira tua nel tuo segreto!

Ciò ch'i' dicea di quell'unica sposa
Dello Spirito Santo, e che ti fece
Verso me volger per alcuna chiosa,

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