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Non pur per ovra delle rote magne, Che drizzan ciascun seme ad alcun fine, Secondo che le stelle son compagne;

Ma per larghezza di grazie divine, Che si alti vapori hanno a lor piova, Che nostre viste là non van vicine;

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Questi fu tal nella sua vita nuova
Virtualmente, ch'ogni abito destro
Fatto averebbe in lui mirabil pruova.
Ma tanto più maligno e più silvestro
Si fa il terren col mal seme, e non colto,
Quant'egli ha più di buon vigor terrestro. 120
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
Mostrando gli occhi giovinetti a lui,
Meco il menava in dritta parte volto.
Si tosto come in su la soglia fui
Di mia seconda etade e mutai vita,
Questi si tolse a me, e diessi altrui.

Quando di carne a spirto era salita,
E bellezza e virtù cresciuta m'era,
Fu' io a lui men cara e men gradita;

E volse i passi suoi per via non vera,
Immagini di ben seguendo false,
Che nulla promission rendono intera.

Ne l'impetrare spirazion mi valse,
Con le quali e in sogno ed altrimenti
Lo rivocai; sì poco a lui ne calse.

Tanto giù cadde, che tutti argomenti
Alla salute sua eran già corti,
Fuor che mostrargli le perdute genti.

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Per questo visitai l'uscio de' morti,
E a colui che l'ha quassù condotto,
Li prieghi miei, piangendo, furon porti.
L'alto fato di Dio sarebbe rotto,
Se Lete si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata senz' alcuno scotto

Di pentimento che lagrime spanda.

CANTO TRENTESIMOPRIMO.

ARGOMENTO.

Beatrice nuovamente rivolge a Dante il suo parlare
e si fa con più d'ardore a riprenderlo; per lo
che egli fu indotto a confessare di propria bocca
il suo errore, dal cui intenso rincrescimento cadde
a terra tramortito; indi riavutosi, fu da Matelda
tuffato nell' acque del fiume Lete, e tratto all' altra

riva.

O tu, che se' di là dal fiume sacro
(Volgendo suo parlare a me per punta,
Che pur per taglio m'era paruť' acro),
Ricominciò, seguendo senza cunta,
Di, dì, se quest' è vero: a tanta accusa
Tua confession conviene esser congiunta.
Era la mia virtù tanto confusa,

Che la voce si mosse, e pria si spense
Che dagli organi suoi fosse dischiusa.

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Poco sofferse: poi disse: Che pense?
Rispondi a me; chè le memorie triste
In te non sono ancor dall' acqua offense.
Confusione e paura insieme miste
Mi pinsero un tal si fuor della bocca,
Al quale intender fur mestier le viste.
Come balestro frange, quando scocca
Da troppa tesa la sua corda e l'arco,
E con men foga l'asta il segno tocca;
Si scoppia' io sott' esso grave carco,
Fuori.sgorgande lagrime e sospiri,
E la voce allentò per lo suo varco.
Ond' ella a me: Per entro i miei disiri,
Che ti menavano ad amar lo bene
Di là dal qual non è a che s' aspiri,
Quai fosse attraversate, o quai catene
Trovasti, perchè del passare innanzi
Dovessiti così spogliar la spene?

E quali agevolezze, o quali avanzi
Nella fronte degli altri si mostraro,
Perchè dovessi lor passeggiare anzi?
Dopo la tratta d'un sospiro amaro,
A pena ebbi la voce che rispose,
E le labbra a fatica la formaro.

Piangendo dissi: Le presenti cose
Col falso lor piacer volser miei passi,
Tosto che 'l vostro viso si nascose.

Ed ella: Se tacessi, o se negassi Ciò che confessi, non fora men nota La colpa tua: da tal giudice sassi.

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CANTO XXXI.

Ma quando scoppia dalla propria gota L'accusa del peccato, in nostra corte, Rivolge sè contra il taglio la rota.

Tuttavia, perchè me' vergogna porte
Del tuo errore, e perchè altra volta
Udendo le sirene sie più forte,

Pon giù il seme del piangere, ed ascolta;
Si udirai come in contraria parte
Muover doveati mia carne sepolta.

Mai non t'appresentò natura ed arte
Piacer, quanto le belle membra in ch' io
Rinchiusa fui, e che son terra sparte:

E se il sommo piacer si ti fallio
Per la mia morte, qual cosa mortale
Dovea poi trarre te nel suo disio?

Ben ti dovevi, per lo primo strale
Delle cose fallaci, levar suso
Diretr' a me che non era più tale.

Non ti dovea gravar le penne in giuso,
Ad aspettar più colpi, o pargoletta,
O altra vanità con si brev' uso.

Nuovo augelletto due o tre aspetta;
Ma dinanzi dagli occhi de' pennuti
Rete si spiega indarno, o si saetta.
Quale i fanciulli vergognando muti,
Con gli occhi a terra, stannosi ascoltando,
E sè riconoscendo, e ripentuti;

Tal mi stav' io. Ed ella disse: Quando
Per udir se' dolente, alza la barba,
E prenderai più doglia riguardando.

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Con men di resistenza si dibarba Robusto cerro, ovvero a nostral vento, Ovvero a quel della terra di Jarba,

Ch' io non levai al suo comando il mento:

E quando per la barba il viso chiese,
Ben conobbi il velen dell' argomento.
E come la mia faccia si distese,
Posarsi quelle prime creature
Da loro aspersion l'occhio comprese;
E le mie luci, ancor poco sicure,
Vider Beatrice volta in su la fiera,
Ch' è sola una persona in duo nature.
Sotto suo velo, ed oltre la riviera
Verde, pareami più sè stessa antica
Vincer, che l' altre qui quand' ella c' era.
Di penter si mi punse ivi l' ortica,

Che di tutt' altre cose, qual mi torse
Più nel suo amor, più mi si fe nimica.
Tanta riconoscenza il cor mi morse,
Ch'io caddi vinto, e quale allora femmi,
Salsi colei che la cagion mi porse.

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Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,

La Donna ch' io avea trovata sola,

Sopra me vidi, e dicea: Tiemmi, tiemmi.
Tratto m' avea nel fiume infino a gola,
E, tirandosi me dietro, sen giva
Sovresso l'acqua, lieve come spola,
Quando fui presso alla beata riva,

Asperges me si dolcemente udissi,

Ch' io nol so rimembrar, non ch' io lo scriva.

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