Da che io intesi quelle anime offense, Chinai il viso, e tanto il tenni basso, Finchè Poeta mi disse: Che pense? Quando risposi, cominciai: O lasso, Quanti dolci pensier, quanto disio Menò costoro al doloroso passo!
Poi mi rivolsi a loro, e parla' io,
E cominciai: Francesca, i tuoi martiri A lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri, A che e come concedette Amore, Che conosceste i dubbiosi desiri?
Ed ella a me: Nessun maggior dolore, Che ricordarsi del tempo felice Nella miseria; e ciò sa 'l tuo Dottore. Ma se a conoscer la prima radice Del nostro amor tu hai cotanto affetto Farò come colui che piange e dice.
Noi leggevamo un giorno per diletto Di Lancillotto, come amor lo strinse : Soli eravamo e senz' alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci sospinse Quella lettura e scolorocci il viso: Ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso
Esser baciato da cotanto amante, Questi, che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante:
Quel giorno più non vi legemmo avante.
Galeotto fu 'I libro e chi lo scrisse:
Mentre che l'uno spirto questo disse, L'altro piangeva sì che di pietade I' venni men così com' io morisse: E caddi, come corpo morto cade.
Trovasi il Poeta, al ritornare in sè stesso, nel terzo cerchio dell' Inferno, in cui stavano i Golosi offesi dal cane Cerbero, e tormentati da una fiera pioggia mescolata con neve e grandine; dopo aver con Ciacco favellato, viene colla sua guida al luogo che mette nel quarto cerchio, dove ritrovarono Pluto.
Al tornar della mente, che si chiuse Dinanzi alla pietà de' duo cognati, Che di tristizia tutto mi confuse,
Nuovi tormenti e nuovi tormentati Mi veggio intorno, come ch' i' mi mova, E come ch'i' mi volga e ch' i' mi guati. I' sono al terzo cerchio della piova Eterna, maledetta, fredda e greve: Regola e qualità mai non l'è nova. Grandine grossa, e acqua tinta, e neve
Per l'aer tenebroso si riversa: Pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
Con tre gole caninamente latra
Sovra la gente che quivi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra, E il ventre largo, e unghiate le mani; Graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra. Urlar gli fa la pioggia come cani : Dell' un de' lati fanno all' altro schermo; Volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, Le bocche aperse, e mostrocci le sanne: Non avea membro che tenesse fermo. El Duca mio, distese le sue spanne, Prese la terra, e con piene le pugna La gittò dentro alle bramose canne.
Qual è quel cane che abbaiando agugna, E si racqueta poi che 'l pasto morde, Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer quelle facce lorde Dello dimonio Cerbero che introna L'anime si ch'esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l'ombre che adona
La greve pioggia, e ponavam le piante Sopra lor vanità che par persona.
Elle giacien per terra tutte quante, Fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
Ch'ella ci vide passarsi davante.
O tu che se' per questo Inferno tratto,
Mi disse, riconoscimi, se sai:
Tu fosti, prima ch' io disfatto, fatto.
Ed 10 a lei: L'angoscia che tu hai Forse ti tira fuor della mia mente Sì, che non par ch' io ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se', che 'n si dolente Luogo se' messa, ed a si fatta pena, Che s'altra è maggio, nulla è si spiacente. Ed egli a me: La tua città ch'è piena D'invidia sì, che già trabocca il sacco, Seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco; Ed io anima trista non son sola, Chè tutte queste a simil pena stanno Per simil colpa: e più non fe parola.
Io gli risposi Ciacco, il tuo affanno Mi pesa sì, che a lagrimar m' invita: Ma dimmi, se tu sai, a che verranno
Li cittadin della città partita: S'alcun v'è giusto: e dimmi la cagione, Per che l'ha tanta discordia assalita.
Ed egli a me: Dopo lunga tenzone Verranno al sangue, e la parte selvaggia Caccerà l'altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia Infra tre Soli, e che l'altra sormonti Con la forza di tal che testè piaggia. Alto terrà lungo tempo le fronti, Tenendo l'altra sotto gravi pesi, Come che di ciò pianga, e che n'adonti.
Giusti son duo, ma non vi sono intesi: Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville c'hanno i cori accesi.
Qui pose fine al lagrimabil suono. Ed io a lui: Ancor vo' che m'insegni, E che di più parlar mi facci dono. Farinata e il Tegghiaio, che fur si degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca, E gli altri che a ben far poser gl'ingegni, Dimmi ove sono, e fa ch' io li conosca ; Chè gran desio mi spinge di sapere,
Se 'I ciel gli addolcia o lo 'nferno gli attosca. E quegli Ei son tra le anime più nere; Diversa colpa giù gli grava al fondo: Se tanto scendi, gli potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo, Pregoti ch' alla mente altrui mi rechi: Più non ti dico, e più non ti rispondo.
Gli diritti occhi torse allora in biechi: Guardommi un poco; e poi chinò la testa: Cadde con essa a par degli altri ciechi.
El Duca disse a me: Più non si desta Di qua dal suon dell' angelica tromba. Quando verrà la nimica podesta,
Ciascun ritroverà la trista tomba, Ripiglierà sua carne e sua figura, Udirà quel che in eterno rimbomba. Si trapassammo per sozza mistura Dell' ombre e della pioggia, a passi lenti, Toccando un poco la vita futura :
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