Trattar volendo il divino Poeta del celeste beato Regno, dopo aver fatta l'invocazione ad Apollo, racconta come sull'ora del mattino levossi dal terrestre Paradiso verso il Cielo in compagnia di Beatrice, da cui con ingegnoso discorso gli fu mostrata la cagione perchè egli potesse col corpo in
La gloria di Colui, che tutto move, Per l'universo penetra, e risplende In una parte più, e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende Fu'io, e vidi cose che ridire
Nè sa, nè può qual di lassù discende; Perchè, appressando sè al suo disire, Nostro intelletto si profonda tanto, Che retro la memoria non può ire. Veramente quant' io del regno santo Nella mia mente potei far tesoro, Sarà ora materia del mio canto.
O buono Apollo, all'ultimo lavoro Fammi del tuo valor si fatto vaso, Come dimandi a dar l'amato alloro. Insino a qui l'un giogo di Parnaso Assai mi fu, ma or con ambedue M'è duopo entrar nell' arringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue Si come quando Marsia traesti Della vagina delle membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti Tanto, che l'ombra del beato regno Segnata nel mio capo io manifesti,
Venir vedra'mi al tuo diletto legno, E coronarmi allor di quelle foglie, Chè la materia e tu mi farai degno.
Si rade volte, Padre, se ne coglie, Per trionfare o Cesare o poeta (Colpa e vergogna dell'umane voglie), Che partorir letizia in su la lieta Delfica Deità dovria la fronda Peneia, quando alcun di sè asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda: Forse diretro a me con miglior voci Si pregherà perchè Cirra risponda.
Surge a' mortali per diverse foci La lucerna del mondo; ma da quella, Che quattro cerchi giugne con tre croci,
Con miglior corso e con migliore stella Esce congiunta, e la mondana cera Più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera Tal foce, e quasi tutto era là bianco Quello emisperio, e l'altra parte nera,
Quando Beatrice in sul sinistro fianco Vidi rivolta, e riguardar nel Sole: Aquila si non gli s'affisse unquanco. E sì come secondo raggio suole Uscir del primo e risalire insuso, Pur come peregrin che tornar vuole;
Così dell'atto suo, per gli occhi infuso
Nell'immagine mia, il mio si fece,
E fissi gli occhi al Sole oltre a nostr'uso. Molto è licito là, che qui non lece Alle nostre virtù, mercè del loco Fatto per proprio dell'umana spece. lo nol soffersi molto nè sì poco, Ch'io nol vedessi sfavillar d'intorno Qual ferro che bollente esce del fuoco.
E di subito parve giorno a giorno Essere aggiunto, come Quei che puote Avesse il ciel d'un altro Sole adorno.
Beatrice tutta nell'eterne rote
Fissa con gli occhi stava; ed io, in lei Le luci fisse di lassù rimote,
Nel suo aspetto tal dentro mi fei, Qual si fe Glauco nel gustar dell'erba, Che il fe consorto in mar degli altri Dei. Trasumanar significar per verba
Non si poria; però l'esemplo basti A cui esperienza grazia serba.
S'io era sol di me quel che creasti Novellamente, Amor che il ciel governi, Tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti. Quando la rota, che tu sempiterni Desiderato, a sè mi fece atteso, Con l'armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto allor del cielo acceso
Dalla fiamma del Sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.
La novità del suono e il grande lume
Di lor cagion m'accesero un disio Mai non sentito di cotanto acume. Ond' ella, che vedea me, sì com'fio, Ad aquetarmi l'animo commosso, Pria ch'io a dimandar, la bocca aprio, E comincio: Tu stesso ti fai grosso
Col falso imaginar, sì che non vedi Ciò che vedresti, se l'avessi scosso,
Tu non se' in terra, sì come tu credi;
Ma folgore, fuggendo il proprio sito, Non corse come tu ch'ad esso riedi.
S'i' fui del primo dubbio disvestito Per le sorrise parolette brevi, Dentro ad un nuovo più fui irretito;
E dissi: Già contento requievi
Di grande ammirazion; ma ora ammiro Com' io trascenda questi corpi lievi.
Ond' ella, appresso d'un pio sospiro, Gli occhi drizzỏ vêr me con quel sembiante, Che madre fa sopra figliuol deliro;
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