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Or ci attristiam nella belletta negra. Quest' inno si gorgoglian nella strozza, Che dir nol posson con parola integra. Cosi girammo della lorda pozza Grand' arco, tra la ripa secca el mezzo, Con gli occhi volti a chi del fango ingozza: Venimmo a piè d'una torre al dassezzo. 130

CANTO OTTAVO.

ARGOMENTO.

Entra Dante insieme col suo duce nella barca di Flegias, e su quella per la palude Stige navigando, incontra Filippo Argenti, di cui mirò l'orrido strazio. Pervengono in ultimoall a città di Dite, sulla di cui entrata trovarono moltissimi demoni, i quali chiusero dispettosamente la porta in faccia a Virgilio.

lo dico seguitando, ch' assai prima
Che noi fussimo al piè dell' alta torre,
Gli occhi nostri n'andar suso alla cima,

Per due fiammette che i vedemmo porre,
Ed un'altra da lungi render cenno
Tanto, che appena il potea l'occhio torre.

Ed io rivolto al mar di tutto il senno
Dissi: Questo che dice? e che risponde
Quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?

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Ed egli a me: Su per le sucide onde
Già scorgere puoi quello che s'aspetta,
Se il fummo del pantan nol ti nasconde.
Corda non pinse mai da sè saetta,
Che si corresse via per l'aere snella,
Com' io vidi una nave piccioletta

Venir per l'acqua verso noi in quella,
Sotto il governo d'un sol galeoto,
Che gridava: Or se' giunta, anima fella!
Flegias, Flegià s,tu gridi a vuoto,
Disse lo mio Signore, a questavolta :
Più non ci avrai, se non passando il loto.
Quale colui che grande inganno ascolta
Che gli sia fatto, e poi se ne rammarca,
Tal si fe Flegiàs nell' ira accolta.

Lo Duca mio discese nella barca,

E poi mi fece entrare appresso lui.
E sol, quand'i' fui dentro, parve carca,

Tosto che'l Duca ed io nel legno fui,
Secando se ne va l'antica prora
Dell'acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi correvam la morta gora,
Dinanzi mi si fece un pien di fango,
E disse: Chi se' tu che vieni anzi ora ?
Ed io a lui: S'i' vegno, non rimango;
Ma tu chi se', che si sei fatto brutto?
Rispose: Vedi che son un che piango.

Ed io a lui: Con piangere e con lutto,
Spirito maledetto, ti rimani,

Ch' io ti conosco, ancor sie lordo tutto.

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Allora stese al legno ambe le mani: Per che 'l Maestro accorto lo sospinse, Dicendo: Via costà con gli altri cani.

Lo collo poi con le braccia mi cinse,
Baciommi il volto, e disse: Alma sdegnosa,
Benedetta colei che in te s'incinse.

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
Bontà non è che sua memoria fregi,
Così è l'ombra sua qui furiosa.

Quanti si tengon or lassù gran regi,
Che qui staranno come porci in brago,
Di sè lasciando orribili dispregi !

Ed io Maestro, molto sarei vago
Di vederlo attuffare in questa broda,
Prima che noi uscissimo del lago.

Ed egli a me: Avanti che la proda
Ti si lasci veder, tu sarai sazio:
Di tal disio converrà che tu goda.
Dopo ciò poco, vidi quello strazio
Far di costui alle fangose genti,
Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: A Filippo Argenti.

Lo fiorentino spirito bizzarro

In sè medesmo si volgea co'denti.

Quivi'l lasciammo, che più non ne narro:
Ma negli orecchi mi percosse un duolo,
Perch' io avanti intento l'occhio sbarro.
Lo buon Maestro disse: Omai, figliuolo,
S'appressa la città c'ha nome Dite,
Co' gravi cittadin, col grande stuolo.

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Ed io: Maestro, già le sue meschite La entro certo nella valle cerno Vermiglie, come se di fuoco uscite

Fossero. Ed ei mi disse: 11 foco eterno, Ch'entro le affoca, le dimostra rosse,

Come tu vedi in questo basso inferno.

Noi pur giugnemmo dentro all' alte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata :
Le mura mi parea che ferro fosse.

Non senza prima far grande aggirata,
Venimmo in parte, dove il nocchier forte,
Uscite, ci gridò, qui è l'entrata.

Io vidi più di mille in sulle porte
Dal ciel piovuti, che stizzosamente
Dicean: Chi è costui, che senza morte
Va per lo regno della morta gente?
E il savio mio Maestro fece segno
Di voler lor parlar segretamente.

Allor chiusero un poco il gran disdegno,
E disser: Vien tu solo, e quei sen vada,
Che si ardito entrò per questo regno:
Sol si ritorni per la folle strada:
Provi, se sa; chè tu qui rimarrai,
Che scorto l'hai per sì buia contrada.
Pensa, Lettor, s'i' mi disconfortai
Nel suon delle parole maledette;
Ch'i' non credetti ritornarci mai.

O caro Duca mio, che più di sette
Volte m' hai sicurtà renduta, e tratto
D'alto periglio che incontra mi stette,

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Non mi lasciar, diss' io, così disfatto;
E se l'andar più oltre c'è negato,
Ritroviam l' orme nostre insieme ratto.

E quel Signor, che li m'avea menato,
Mi disse: Non temer, che il nostro passo
Non ci può torre alcun: da tal n'è dato.
Ma qui m' attendi: e lo spirito lasso
Conforta e ciba di speranza buona,
Ch'i' non ti lascerò nel mondo basso.

Così sen va, e quivi m' abbandona
Lo dolce padre, ed io rimango in forse;
Chè il no e il sì nel capo mi tenzona.

Udir non pote' quello ch' a lor porse;
Ma ei non stette là con essi guari,
Che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Chiuser le porte que' nostri avversari
Nel petto al mio Signor, che fuor rimase,
E rivolsesi a me con passi rari.

Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase
D'ogni baldanza, e dicea ne' sospiri :
Chi m' ha negate le dolenti case?

Ed a me disse: Tu, perch' io m' adiri,
Non sbigottir, ch' io vincerò la pruova,
Qual ch'alla difension dentro s' aggiri.

Questa lor tracotanza non è nuova, Chè già l'usaro a men segreta porta, La qual senza serrame ancor si trova. Sovr' essa vedestù la scritta morta; E già di qua da lei discende l'erta, Passando per li cerchi senza scorta,

Tal, che per lui ne fia la terra aperta.

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