Non han si aspri sterpi nè si folti Quelle fiere selvagge, che in odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
Quivi le brutte Arpie lor nido fanno, Che cacciar delle Strofade i Troiani Con tristo annunzio di futuro danno.
Ale hanno late, e colli e visi umani, Piè con artigli, e pennuto il gran ventre: Fanno lamenti in su gli alberi strani.
El buon Maestro: Prima che più entre,
Sappi che se' nel secondo girone,
Mi cominciò a dire, e sarai mentre Che tu verrai nell'orribil sabbione. Però riguarda bene, e si vedrai Cose che torrien fede al mio sermone. Io sentia d'ogni parte tragger guai, E non vedea persona che 'l facesse; Perch'io tutto smarrito m'arrestai.
I' credo ch'ei credette ch'io credesse, Che tante voci uscisser tra que' bronchi Da gente che per noi si nascondesse.
Però, disse il Maestro, se tu tronchi Qualche fraschetta d'una d'este piante, Li pensier c'hai si faran tutti monchi. Allor porsi la mano un poco avante,
E colsi un ramoscel da un gran pruno: E'l tronco suo gridò: Perchè mi schiante? Da che fatto fu poi di sangue bruno, Ricominciò a gridar: Perchè mi scerpi? Non hai tu spirto di pietate alcuno?
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi: Ben dovrebb' esser la tua man più pia, Se state fossim' anime di serpi:
Come d'un stizzo verde, ch'arso sia Dall'un de' capi, che dall'altro geme, E cigola per vento che va via:
Cosi di quella scheggia usciva insieme Parole e sangue: ond' io lasciai la cima Cadere, e stetti come l'uom che teme.
S'egli avesse potuto creder prima, Rispose il Savio mio, anima lesa, Ciò c'ha veduto, pur colla mia rima,
Non averebbe in te la man distesa: Ma la cosa incredibile mi fece Indurlo ad ovra ch' a me stesso pesa. Ma dilli chi tu, fosti, sì che, in vece D'alcuna ammenda, tua fama rinfreschi Nel mondo su, dove tornar gli lece.
El tronco: Si col dolce dir m'adeschi, Ch'io non posso tacere: e voi non gravi Perch'io un poco a ragionar m'inveschi.
I' son colui, che tenni ambo le chiavi Del cor di Federigo, e che le volsi Serrando e disserrando, sì soavi,
Che dal segreto suo quasi ogni uom tols Fede portai al glorioso uffizio,
Tanto ch'io ne perdei le vene e i polsi
La meretrice, che mai dall'ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti, Morte comune, e delle corti vizio,
Infiammò contra me gli animi tutti, gl'infiammati infiammâr sì Augusto Che i lieti onor tornaro in tristi lutti. L'animo mio, per disdegnoso gusto, Credendo col morir fuggir disdegno, Ingiusto fece me contra me giusto. Per le nuove radici d'esto legno Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor, che fu d'onor si degno. E se di voi alcun nel mondo riede, Conforti la memoria mia, che giace Ancor del colpo che invidia le diede,
Un poco attese, e poi: Da ch'ei si tace, Disse il Poeta a me, non perder l'ora, Ma parla e chiedi a lui se più ti piace. Ond'io a lui; Dimandal tu ancora Di quel che credi che a me soddisfaccia; Ch'io non potrei, tanta pietà m'accora. Però ricominciò: Se l'uom ti faccia Liberamente eiò che'l tuo dir prega, Spirito incarcerato, ancor ti piaccia Di dirne come l'anima si lega In questi nocchi; e dinne, se tu puoi, S'alcuna mai da tai membra si spiega. Allor soffio lo tronco forte, e poi Si converti quel vento in cotal voce; Brevemente sarà risposto a voi. Quando si parte l'anima feroce
Dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta, Minos la manda alla settima foce.
Cade in la selva, e non le è parte scelta; Ma là dove fortuna la balestra,
Quivi germoglia come gran di spelta;
Surge in vermena ed in pianta silvestra: 100 Le arpie, pascendo poi delle sue foglie, Fanno dolore ed al dolor finestra.
Come l'altre, verrem per nostre spoglie, Ma non però ch'alcuna sen rivesta:
Chè non è giusto aver ciò ch'uom si toglie. 105 Qui le strascineremo, e per la mesta Selva saranno i nostri corpi appesi, Ciascuno al prun dell'ombra sua molesta. Noi eravamo ancora al tronco attesi Credendo ch'altro ne volessero dire; Quando noi fummo d'un rumor sorpresi, Similemente a colui che venire
Sente il porco e la caccia alla sua posta, Ch'ode le bestie e le frasche stormire.
Ed ecco duo dalla sinistra costa,
Nudi e graffiati fuggendo si forte
Che della selva rompiéno ogni rosta.
E l'altro, a cui pareva tardar troppo, Gridava: Lano, sì non furo accorte
Quel dinanzi: Ora accorri, accorri, morte.
Le gambe tue alle giostre del Toppo. E poichè forse gli fallia la lena, Di sè e d'un cespuglio fece un groppo. Diretro a loro era la selva piena Di nere cagne bramose e correnti, Come veltri ch'uscisser di catena.
In quel che s'appiattò miser li denti, E quel dilaceraro a brano a brano, Poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia Scorta per mano, E menommi al cespuglio che piangea Per le rotture sanguinenti invano.
O lacopo, dicea, da Sant'Andrea, Che t'è giovato di me fare schermo? Che colpa ho io della tua vita rea?
Quando 'l Maestro fu sovr'esso fermo, Disse: Chi fusti, che per tante punte Soffi col sangue doloroso sermo?
E quegli a noi: O anime che giunte Siete a veder lo strazio disonesto Cha le mie frondi sì da me disgiunte,
Raccoglietele al piè del tristo cesto:
I' fui della città che nel Batista
Cangiò'l primo padrone; ond'ei per questo Sempre con l'arte sua la farà trista,
E se non fosse che in sul passo d'Arno Rimane ancor di lui alcuna vista,
Quei cittadin, che poi la rifondarno Sovra 'l cener che d'Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me delle mie case.
« IndietroContinua » |