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E poi vedrai color, che son contenti
Nel fuoco, perchè speran di venire,
Quando che sia, alle beate genti:
Alle qua' poichè tu vorrai salire,
Anima fia a ciò di me più degna;
Con lei ti lascerò nel mio partire.
Chè quello Imperador, che lassù regna,
Perch' io fui ribellante alla sua legge, (10)
Non vuol che in sua città per me si vegna.
In tutte parti impera, e quivi regge:
Quivi è la sua cittade, e l' alto seggio:
Oh! felice colui, cu' ivi elegge!

Ed io a lui: poeta, io ti richieggio

Per quello Iddio, che tu non conoscesti, Acciocch' io fugga questo male, e peggio, Che tu mi mena là, dov' or dicesti

(S' io veggia la porta di San Pietro!) En color, che tu fai cotanto mesti. Allor si mosse, ed io gli tenni dietro.

NOTE

(1) Chè la dirilta via era smarrita: per più cagioni può un uomo trovarsi in una selva: Dante vi si trovò per ismarrimento.

(2) La notte, ch' i passai: la notte decenne passata nella selva dell' errore, e del vizio.

(3) Che non lasciò giammai persona viva: viva della vita virtuosa, e degna di fama: vivere

nell' uomo è ragione usare: chi da ragione si diparte, è morto uomo, e vive bestia. ČoNv. E così intendi della lupa, o avarizia, che uccide chi passa per la sua via, alla vita famosa.

(4) Si, che il piè fermo sempr' era il più basso. Dice che levava molto il piede per dire che andava forte: s' era fermato per necessità di riposo in faccia all' abborrita selva.

(5) Temp' era ec. L'uomo è più forte a virtù alla mattina, che in altra parte del giorno: alla primavera, che in altra stagione dell' anno. Conv.

(6) Ch' io perdei ec. perchè Dante vince la lonza, e il leone, e non la lupa? perchè con lussuria, e con superbia si perviene a gloria e fama, ma con avarizia no.

(7) Nacqui sub Julio, cioè alquanti anni prima che G. Cesare fosse fatto Dittatore. Vedi FORCELLINI alla voce sub.

(8) Ch' è principio a cagion: ben lo sa Virgilio, che certo sali quel monte, e sospira nel Limbo.

(9) Che la seconda morte; la seconda_morte è l'eterna dannazione. Vedi L' EP. DI DANTE ai Fiorentini.

(10) Perch' io fui ribellante ec. perchè non adorai debitamente Iddio, come Rifeo Trojano.

CANTO II.

Cammino dalla Selva alla porta d'Inferno.

Lo giorno se n' andava, e l' aer bruno
Toglieva gli animai, che sono in terra, (1)
Dalle fatiche loro: ed io sol uno
M'apparecchiava a sostener la guerra
Si del cammino, e sì della pietate,
Che ritrarrà la mențe, che non erra.
O muse d'alto ingegno or m' ajutate: (2)
O mente, che scrivesti ciò ch' io vidi,
Qui si parrà la tua nobilitate.

Io cominciai: poeta che mi guidi,
Guarda la mia virtù, s' ell' è possente,
Prima che all' alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvio lo parente
Corruttibile ancora, all'immortale
Secolo andò, e fu sensibilmente:
Però, se l'Avversario d'ogni male
Cortese i fu, pensando l'alto effetto,
Ch' uscir dovea di lui, e il chi e il quale; (3)

Non pare indegno ad uomo d'intelletto:
Ch' ei fu dell' alma Roma e di suo Impero
Nell' empireo ciel per padre eletto:
La quale, è il quale, a voler dir lo vero,
Fur stabiliti per lo loco santo,

U' siede il successor del maggior Piero.
Per quest' andata, onde gli dai tu vanto,
Intese cose, che furon cagione

Di sua vittoria, e del papale ammanto. (4) Andovvi poi lo Vas d'elezione

Per recarne conforto a quella fede,
Ch'è principio alla via di salvazione.
Ma io perchè venirvi? o chi il concede?
Io non Enea, io non Paolo sono:
Me degno a ciò nè io, nè altri crede.
Perchè se del venire io m' abbandono,
Temo che la venuta non sia folle:

Se' savio, e intendi me' che io non ragiono.
E qual è quei, che disvuol ciò che volle,
E per novi pensier cangia proposta,
Sicchè del cominciar tutto si tolle;
Tal mi fec' io in quell' oscura costa,
Perchè pensando consumai l'impresa,
Che fu nel cominciar cotanto tosta.
Se io ho ben la tua parola intesa,
Rispose del magnanimo quell' ombra,
L'anima tua è da viltade offesa:
La qual molte fiate l'uomo ingombra
Si, che d' onrata impresa lo rivolve,
Come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema acciocchè tù ti solve,
Dirotti perchè io venni, e quel ch' io intesi
Nel primo punto che di te mi dolve.

Io era tra color che son sospesi,
E donna mi chiamò beata e bella,
Talchè di comandare io la richiesi.
Lucevan gli occhi suoi più che la stella: (5)
E cominciommi a dir soave e piana
Con angelica voce, in tua favella: (6)
O anima cortese mantovana,

Di cui la fama ancor nel mondo dura,
E durerà quanto il moto lontana; (7)
L'amico mio, e non della ventura,
Nella diserta piaggia è impedito

Si nel cammin, che volto è per paura.
E temo che non sia già sì smarrito,

Ch' io mi sia tardi al soccorso levata, Per quel ch' io ho di lui nel ciel udito. Or movi, e con la tua parola onrata,

E con ciò che ha mestieri al suo campare, L' ajuta sì, ch' io ne sia consolata: Io son Beatrice, che ti faccio andare: Vegno di loco, ove tornar desio: Amor mi mosse, che mi fa parlare: Quando sarò dinanzi al Signor mio, Di te mi loderò sovente a Lui. Tacette allora, e poi cominciai io: O donna di virtù, sola, per cui

L'umana spezie eccede ogni contênto Da quel ciel, ch' ha minor li cerchi sui; Tanto m' aggrada il tuo comandamento, Che l' ubbidir, (sì già fosse!) m' è tardi; Più non t'è uopo aprirmi il tuo talento. Ma dimmi la cagion, che non ti guardi Dello scender quaggiuso in questo centro Dall' ampio loco, ove tornar tu ardi. DANTE, Inf.

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