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Chè come noi venimmo al guasto ponte,
Lo duca a me si volse con quel piglio
Dolce, ch' i vidi inprima appiè del monte.
Le braccia aperse dopo alcun consiglio
Eletto seco, riguardando prima

Ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei ch' adopera ed istima,

Che sempre par che innanzi si proveggia;
Così levando me su vêr la cima

D'un ronchione, avvisava un'altra scheggia,
Dicendo: sopra quella poi t' aggrappa,
Ma tenta pria, s'è tal ch'ella ti reggia.
Non era via da vestito di cappa,

Chè noi appena, ei lieve ed io sospinto,
Potevam su montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto,
Più che dall' altro, era la costa corta,
Non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perchè Malebolge in vêr la porta
Del bassissimo pozzo tutto pende;
Lo sito di ciascuna valle porta,
Che l'una costa surge, e l'altra scende.
Noi pur venimmo alfine in su la punta,
Onde l'ultima pietra si scoscende.
La lena m'era del polmon si munta,
Quando fui su, ch' io non potea più oltre,
Anzi m' assisi nella prima giunta.
Omai convien che tu così ti spoltre,
Disse il maestro, chè seggendo in piuma,
In fama non si vien, nè sotto coltre:
Senza la qual chi sua vita consuma,
Cotal vestigio in terra di sè lascia,
Qua' 'l fumo in aere, ed in aqua la schiuma.

E però leva su, vinci l'ambascia

Con l'animo che vince ogni battaglia,
Se col suo grave corpo non s'accascia.
Più lunga scala convien che si saglia:
Non basta da costoro esser partito:
Se tu m'intendi, or fa sì che ti vaglia.
Levámi allor, mostrandomi fornito

Meglio di lena ch' io non mi sentia;
E dissi: va, ch' io son forte ed ardito.
Su per lo scoglio prendemmo la via,
Ch' era ronchioso, stretto, e malagevole,
Ed erto più assai, che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole,
Quand' una voce uscio dell' alto fosso
A parola formar disconvenevole. (1)
Non so che disse, ancorchè sovra il dosso
Fossi dell' arco già, che varca quivi;
Ma chi parlava, ad ira parea mosso. (2)
Io era volto in giù; ma gli occhi vivi
Non potean ire al fondo per l'oscuro:
Perch' io: maestro, fa che tu arrivi
Dall' altro cinghio, e dismontiam lo muro;
Chè com' io odo quinci, e non intendo,
Così giù veggio, e niente affiguro.
Altra risposta, disse, non ti rendo,
Se non lo far, chè la dimanda onesta
Si dee seguir con l'opera tacendo.
Noi discendemmo il ponte dalla testa,
Ove s' aggiunge con l'ottava ripa,
E poi mi fu la bolgia manifesta.
E vidivi entro terribile stipa

Di serpenti di sì diverse mene,

Che la memoria il sangue ancor mi scipa.

Più non si vanti Libia con sue rene:
Chè se chelidri, jaculi, faree-
Produce, e canchri con anfesibene;
Nè tante pestilenze, nè sì ree

Mostrò giammai con tutta l' Etiopia,
Nè con ciò che di sopra il mar rosso ee.
Tra questa cruda e tristissima copia
Correvan genti nude e spaventate,
Senza sperar pertugio, o elitropia. (3)
Con serpi le man dietro avean legate;
Quelle ficcavan per le ren la coda,

E il capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco ad un, ch' era da nostra proda, S'avventò un serpente, che il trafisse, Là dove il collo alle spalle s' annoda. Nè C si tosto mai, nè I ́si scrisse, (4) Com' ei s' accese, ed arse, e cener tutto Convenne che cascando divenisse.

E

poichè fu a terra sì distrutto, La cener si raccolse, e per sè stessa In quel medesmo ritornò di butto. Così per li gran Savi si confessa

Che la Fenice muore e poi rinasce,
Quando al cinquecentesimo anno appressa:
Erba, nè biada in sua vita non pasce,
Ma sol d'incenso lagrime, e d'amomo,
E nardo e mirra son l' ultime fasce.
E qual è quei che cade, e non sa como,
Per forza di demon, che a terra il tira,
O d'altra oppilazion che lega l'omo,
Quando si leva, che intorno si mira,

Tutto smarrito dalla grande angoscia,
Ch' egli ha sofferta, e guardando sospira:

Tal era il peccator levato poscia.
Ahi! Giustizia di Dio quanto è severa,
Che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il dimandò poi chi egli era:
Perch' ei rispose: 10 piovvi di Toscana,
Poco tempo è, in questa gola fera.
Vita bestial mi piacque, e non umana,
Siccome a mul ch' io fui: son Vanni Fucci
Bestia, e Pistoja mi sa degna tana.
Ed io al duca: dilli che non mucci,

E dimandal qual colpa quaggiù il pinse;
Ch' io il vidi uom già di sangue e di corrucci.
E il peccator, che intese, non s' infinse,
Ma drizzò verso me l'animo e il volto,
E di trista vergogna si dipinse:

Poi disse: più mi duol che tu m' hai còlto
Nella miseria, dove tu mi vedi,

Che quand' io fui dell' altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi:
In giù son messo tanto, perch' io fui
Ladro alla Sagrestia de' belli arredi,
E falsamente già fu apposto altrui:

Ma perchè di tal vista tu non godi,
Se mai sarai di fuor de' luoghi bui,
Apri gli orecchi al mio annunzio, e odi:
Pistoja in pria di Neri si dimagra,
Poi Fiorenza rinnova genti e modi:
Tragge Marte vapor dí val di Magra,
Che è di torbidi nuvoli involuto,
E con tempesta impetuosa ed agra
Sopra campo Picen fia combattuto;
Ond' ei repente spezzerà la nebbia,
Sicchè ogni Bianco ne sarà feruto:
E detto l' ho, perchè dolor ten debhia.

NOTE

(1) A parola ec. a bestemmiare, imprecare ec. (2) Ad ira mosso, offeso, ingiuriato ec.

(3) Pertugio, Un buco che li salvi dai serpenti: Elitropia, un rimedio ai morsi dei serpenti.

(4) Ne C, nè I: le due più semplici e più brevi lettere del nostro Alfabeto.

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