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Recasti già mille lion per preda;

E che se fossi stato all' alta guerra
De' tuoi fratelli, ancor par ch'e' si creda
Ch' avrebber vinto i figli della terra;

Mettine giuso (e non ten venga schifo)
Dove Cocito la freddura serra.

Non ci far ire a Tizio, nè a Tifo:

Questi può dar di quel che qui si brama; Però ti china, e non torcer lo grifo: Ancor ti può nel mondo render fama; Ch' ei vive, e lunga vita ancora aspetta, Se innanzi tempo grazia a sè nol chiama. Così disse il maestro; e quegli in fretta Le man distese, (e prese il duca mio ) Ond' Ercole sentì già grande stretta. Virgilio quando prender si sentio,

Disse a me: fatti in qua, sicch' io ti prenda: Poi fece sì, che un fascio era egli ed io. Qual pare a riguardar la Carisenda

Sotto il chinato, quando un nuvol vada
Sovr' essa si, che d'ello incontro penda;
Tal parve Anteo a me, che stava a bada
Di vederlo chinare; e fu tal ora
Ch' io avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo, che divora
Lucifero con Giuda, ci posò:

Ne si chinato li fece dimora,
E come albero in nave si levò.

DANTE, Inf.

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NOTE

(1) Ond' io, maestro, di, che terra è questa? Che città è questa?

(2) Così cioè a poco a poco mi fuggì errore, e mi giunse paura.

CANTO XXXII.

Cocito diviso in quattro sfere: nella prima, Caina, sono i traditori dei consanguinei: nella seconda, Antenora, i traditori della patria.

S' io avessi le rime e aspre e chiocce,
Come si converrebbe al tristo buco,
Sovra il qual pontan tutte l' altre rocce;
Io premerei di mio concetto il suco

Più pienamente; ma perch' io non l'abbo,
Non senza tema a dicer mi conduco:
Chè non è impresa da pigliare a gabbo
Descriver fondo a tutto l' universo,
Nè da lingua, che chiami mamma e babbo.
Ma quelle donne ajutino il mio verso,
Che ajutaro Anfïone a chiuder Tebe,
Sicchè dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe,

Che stai nel loco, onde parlare è duro,
Me' foste state qui pecore o zebe!

Come noi fummo giù nel pozzo scuro,
Sotto i piè del gigante, assai più bassi,
Ed io mirava ancora all' alto muro;
Dicere udi' uno; guarda come passi,
Fa si che tu non calchi con le piante
Le teste di fratei miseri lassi.
Perch' io mi volsi, e vidimi davante,
E sotto i piedi un lago, che per gelo
Avea di vetro, e non d' aqua sembiante.
Non fece al corso suo si grosso velo
Di verno la Danoja in Austericch,
Nè il Tanai là sotto il freddo cielo,
Com' era quivi: che, se Tabernicch
Vi fosse su caduto, o Pietrapana,
Non avria pur dall' orlo fatto cricch.
E come a gracidar si sta la rana
Col muso fuor dell' aqua, quando sogna
Di spigolar sovente la villana;
Livide, e infin là dove appar vergogna,
Eran l'ombre dolenti nella ghiaccia,
Mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuno in giù tenea volta la faccia:

Da bocca il freddo, e dagli occhi il cor tristo
Tra lor testimonianza si procaccia.
Quando io ebbi d' intorno alquanto visto,
Volsimi a' piedi, e vidi duo sì stretti,
Che il pel del capo avieno insieme misto.
Ditemi voi, che si stringete i petti,

Diss' io, chi siete: e quei piegaro i colli,
E poi ch' ebber li visi a me eretti,

Gli occhi lor, ch' eran pria, pur dentro, molli;
Gocciar su per le labbra, è il gelo strinse (1)
Le lagrime tra esse, e riserrolli.

Legno con legno spranga mai non cinse
Forte così; ond' ei, come duo becchi
Cozzaro insieme, tant' ira li vinse.
Ed un ch' avea perduti ambo gli orecchi
Per la freddura, pur col viso in giue,
Disse: perchè cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper chi son cotesti due,

La valle, onde Bisenzio si dichina,
Del padre loro Alberto e di lor fuc:
D'un corpo usciro; e tutta la Caina
Potrai cercare, e non troverai ombra
Degna più d'esser fitta in gelatina:
Non quelli, a cui fu rotto il petto

l'ombra

Con esso un colpò per la man d' Artù,
Non Focaccia; non questi che m' ingombra
Col capo sì, ch' io non veggio oltre più,
E fu nomato Sassol Mascheroni:

Se Tosco se', ben sai omai chi fu.
E perchè non mi metti in più sermoni,
Sappi ch' io fu' il Camicion de' Pazzi,
Ed aspetto Carlin che mi scagioni.
Poscia vid' io mille visi cagnazzi

Fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
E verrà sempre, de' gelati guazzi.
E mentre che andavamo in ver lo mezzo,
Al quale ogni gravezza si rauna,
Ed io tremava nell' eterno rezzo;
Se voler fu, o destino, o fortuna,

Non so; ma passeggiando tra le teste,
Forte percossi il piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: perchè mi peste?
Se tu non vieni a crescer la vendetta
Di Montaperti, perchè mi moleste?

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