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Ed io: maestro, molto sarei vago
Di vederlo attuffare in questa broda,
Prima che noi uscissimo del lago.
Ed egli a me: avanti che la proda
Ti si lasci veder, tu sarai sazio:
Di tal desio converrà che tu goda.
Dopo ciò poco vidi quello strazio
Far di costui alle fangose genti,
Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: a Filippo Argenti...!
Lo fiorentino spirito bizzarro

In sè medesmo si volgea co' denti. Quivi ' lasciammo, che più non ne narro: Ma negli orecchi mi percosse un duolo, Perch' io avanti intento l'occhio sbarro. Lo buon maestro disse: omai, figliuolo, S'appressa la città, ch' ha nome Dite, Co' gravi cittadin, col grande stuolo. Ed io: maestro, già le sue meschite Là entro certo nella valle scerno, Vermiglie come se di fuoco uscite Fossero. Ed ei mi disse: il fuoco eterno Ch' entro le affuoca, le dimostra rosse, Come tu vedi, in questo basso inferno. Noi pur giugnemmo dentro all' alte fosse, Che vallan quella terra sconsolata: Le mura mi parea che ferro fosse. Non senza prima far grande aggirata, Venimmo in parte, dove il nocchier, forte, Uscite, ci gridò, qui è l'entrata. Io vidi più di mille in su la porte (2) Dal ciel piovuti, che stizzosamente Dicean: chi è costui, che senza morte

Va per lo regno della morta gente?
E il savio mio maestro fece segno
Di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
E disser: vien tu solo, e quei sen vada,
Che si ardito entrò per questo regno.
Sol su ritorni per la folle strada:

Provi, se sa chè tu qui rimarrai,
Che gli ha' iscorta sì buja contrada.
Pensa, lettor, s' io mi disconfortai
Nel suon delle parole maladette,
Ch' io non credetti ritornarci mai.
O caro duca mio, che più di sette
Volte m' hai sicurtà renduta, e tratto
D'alto periglio, che incontra mi stette;
Non mi lasciar, diss' io, così disfatto:
E se l'andar più oltre c'è negato,
Ritroviam l'orme nostre insieme ratto.
E quel Signor, che li m' avea menato,
Mi disse: non temer, chè il nostro passo
Non ci può torre alcun; da Tal n'è dato.
Ma_qui m'attendi, e lo spirito lasso
Conforta, e ciba di speranza buona,
Ch' io non ti lascerò nel mondo basso.
Così sen va, e quivi m' abbandona

Lo dolce padre, ed io rimango in forse; Chè il sì, e il no nel capo mi tenzona. Udir non potei quello ch' a lor porse; Ma ei non stette là con essi guari, Chè ciascun dentro a prova si ricorse. Chiuser la porta que' nostri avversari Nel petto al mio Signor, che fuor rimase, E rivolsesi a me con passi rari.

Gli occhi alla terra, e le ciglia avea rase
D'ogni baldanza, e dicea ne' sospiri:
Chi m' ha negate le dolenti case?
Ed a me disse: tu, perch' io m' adiri,
Non shigottir, ch' io vincerò la prova,
Qual ch'alla difension dentro s'aggiri.
Questa lor tracotanza non è nuova,

Chè già l'usaro a men segreta porta,
La qual senza serrame ancor si trova:
(Sovr' essa vedestù la scritta morta)
E già di qua da lei discende l' erta,
Passando per li cerchi senza scorta
Tal, che per lui ne fia la terra aperta.

NOTE

(1) Chi se' tu, che vieni anzi ora? Qual pezzaccio d'ira di Dio sei tu, che vieni all' Inferno prima d'esser morto?

(2) In su la porte: per porta, come C. 27 lebbre per lebbra; Purg: 29 ale per ala ec.

CANTO IX.

Un messo del cielo apre la porta di Dite; sesto cerchio: gli Eresiarchi.

Quel color, che viltade fuor mi pinse,
Veggendo il duca mio tornare in volta,
Più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.
Attento si fermò com' uom ch' ascolta;
Chè l'occhio nol potea menare a lunga,
Per l' aer nero, e per la nebbia folta.
Pur a noi converrà vincer la punga,

Cominciò ei: se non.... tal ne s' offerse:
Oh quanto tarda a me ch' altri qui giunga!
Io vidi ben siccom' ei ricoperse

Lo cominciar con l'altro che poi venne,
Chè fur parole alle prime diverse:
Ma nondimen paura il suo dir dienne,
Perch'io traeva la parola tronca

Forse a peggior sentenza, ch' ei non tenne.

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