CANTO XV. Terzo girone: violenti contro natura. Ora cen porta l' un de' duri margini: Per difender lor ville e lor castelli, Tanto, ch' io non avrei visto dov' era, Quando incontrammo d' anime una schiera, Fui conosciuto da un, che mi prese E chino, per la mano, alla sua faccia, Ritorna indietro; ei lascia andar la traccia. (1) E poi rigiungerò la mia masnada, . Per andar par di lui; ma il capo chino Lasso! Di sopra in la vita serena Che l' una parte e l'altra avranno fame Di te; ma lungi fia dal becco l'erba. Faccian le bestie fiesolane strame Di lor medesme; e non tocchin la pianta, S'alcuna surge ancor nel lor letame, In cui riviva la sementa santa Di quei Roman, che vi rimaser, quando Fu fatto il nido di malizia tanta. Se fosse pieno tutto il mio dimando, Risposi lui, voi non sareste ancora Dell' umana natura posto in bando, Chè in la mente m'è fitta, ed or m' accora, Di voi, quando nel mondo ad ora ad ora E quant' io l'abbo in grado, mentr' io vivo, Convien che nella mia lingua si scerna. Ciò, che narrate di mio corso, scrivo, E serbolo a chiosar con altro testo A donna, che il saprà, se a lei arrivo. Tanto vogl' io che vi sia manifesto, Purchè mia coscienza non mi garra, Ch' alla fortuna, come vuol, son presto. Non è nuova agli orecchi miei tale arra; Però giri fortuna la sua ruota Come le piace, e il villan la sua marra. Lo mio maestro allora in su la gota Destra si volse indietro, e riguardommi, Poi disse: ben l'ascolta chi la nota. Nè pertanto di men parlando vommi (2) Con ser Brunetto, e dimando chi sono Li suoi compagni più noti, e più sommi. Ed egli a me: saper d' alcuno è buono: Degli altri fia laudabile il tacerci, Chè il tempo saria corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci, E letterati grandi, e di gran fama, D'un medesmo peccato al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, E Francesco d' Accorso anco, e vedervi, Se avessi avuto di tal tigna brama, Colui potêi, che dal servo dei servi Fu trasmutato d' Arno in Bacchiglione, Ove lasciò li mal protesi nervi. Di più direi; ma il venire e il sermone Più lungo esser non può, perocch' io veggio Gente vien, con la quale esser non deggio: Nel quale io vivo ancora; e più non cheggio. Poi si rivolse, e parve di coloro, Che corrono a Verona il drappo verde Per la campagna; e parve di costoro Quegli che vince, e non colui che perde. ΝΟΤΕ (1) Ei lascia cc. Egli per venir teco lascia andare la compagnia. (2) Ne pertanto di men ec: per quelle parole di Virgilio io non troncai il mio parlare con Ser Brunetto. DANTE, Inf. 7 |