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mente da lui frequentati (come mostra Filone nella sua Legazione a Cajo), lordati di crudeltà inaudite descritte da Seneca de Ira lib. III. c. XVIII. e seg. ed abbelliti, avendovi fralle altre cose costrutto il circo e fatto trasportare dall' Egitto l' obelisco oggi eretto sulla piazza di s. Pietro; e rammentandosi inoltre che a quella epoca non esistevano, nè il ponte Gianicolense, nè il ponte Elio, che furono innalzati dopo, è facile conghietturare, che forse a Cajo Caligola debbasi ascrivere la costruzione di questo ponte, conghiettura, che si rende ancor più probabile, conoscendo che Caligola andò pazzo per la costruzione di simili moli di communicazione, avendo unito il Palatino al Campidoglio per mezzo di un ponte, e formato un ponte nel mare, che congiungesse Pozzuoli a Baja per più di tre miglia e mezzo.

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I moderni chiamarono questo ponte, Trionfale, senza alcun appoggio nè di monumenti, nè di autorità classica, nè di documenti di sorte alcuna. Giulio II. ebbe la intenzione di ristaurarlo e dargli il suo nome, come la strada che a questo ponte retta avrebbe menato, che dicesi via Giulia, scrivendo l'Albertino nella opera de Mirabilibus Novae et Veteris Urbis Romae allo stesso papa dedicata: Inter pontem Sixti, et Aelii Hadriani erat pons Triumphalis, quem nunc Tua Beatitudo vult instaurare et iam Iulius pons a populo romano appellatur, fundamenta cuius extant diruta non longe ab ecclesia s. Spiritus. Da questo passo, e dagli avanzi esistenti, per quanto mutili, o alterati siano stati ne' tempi bassi apparisce, che il ponte stava fra s. Giovanni de' Fiorentini, e s. Spirito; nulladimeno il Piranesi lo traslocò fra il ponte Elio, o s. Angelo, ed il teatro di Apollo; e peggio è che nol fece per una svista accidentale, ma vi ragiona, e dice, che gli avanzi del ponte appartengono ad una casa de' bassi tempi e

ad una torre fatta sul fiume per difendere la basilica Vaticana dai Saraceni! È certo che una parte di que' ruderi sono opera de'bassi tempi, forse fatta, o per mole, o per pescagione, ma patenti pure sono le fondamenta del ponte e delle teste di esso.

S. 3.

RICERCHE SULLA POPOLAZIONE DI ROMA ANTICA, E SULL' IN

NALZAMENTO SUCCESSIVO DEL SUOLO, divisione ANTICA E MODERNA DELLA CITTA'.

Un passo di Tacito An. lib. XI. c. XXV. fu scoglio grande a molti scrittori moderni circa lo stato numerale della popolazione di Roma, e sebbene il Muratori negli Annali, e dopo di lui Gibbon lo abbiano bene inteso e spiegato, nondimeno si ode ogni giorno ripetere, ed in qualche scritto ancora si vede impresso, il calcolo falso, che attribuisce a Roma una popolazione che mai non ebbe e che è fisicamente impossibile che potesse, o possa giammai avere. Dice dunque quello storico così accurato, che nel lustro fatto da Claudio come censore insieme con Lucio Vitellio suo collega l'anno 801 di Roma 48 della era volgare furono trovati 6 millioni e 944 mila cittadini: condiditque lustrum, quo censa sunt civium LXIX centena XLIV millia. Ognun comprende facilmente, che in questo passo si tratta del censimento di que' che erano cittadini romani non di que' che abitavano Roma, i quali erano e cittadini, e non cittadini, come dall' altro canto molte città, e tutta la Italia a quella epoca aveano la cittadinanza romana; dalla quale enumerazione essendo escluse le donne, gli schiavi, e gli stranieri, e non essendo nel censimento compresi i fanciulli, si vede che almeno al quadruplo

dovrebbe farsi ammontare la cifra testè indicata, che è quanto dire ad oltre 27 millioni, numero impossibile a contenersi.

Egli è pur troppo certo, che nessun documento ci resta per determinare con precisione il numero degli abitanti di Roma (da distinguersi sempre dai cittadini romani) in nessuna epoca de' tempi antichi ; due passi però ci rimangono di antichi scrittori, uno che si riferisce ai tempi di Augusto, l' altro a quelli di Settimio Severo, dai quali parmi poter dedurre approssimativamente il numero degli abitanti di Roma in quelle due epoche, poichè si riferiscono alla consumazione annua del grano. Aurelio Vittore nella Epitome c. I. dichiara che ai tempi di Augusto portavansi in Roma dall'Egitto 20 millioni di moggia di grano: Huius tempore (cioè di Augusto) ex Aegypto annua ducenties centena millia frumenti inferebantur : e giustamente l' Arntzenio chiosa scilicet modiorum, giacchè era la misura ordinaria di Roma, trattandosi di frumento. Qui potrà insorgere questione di quali moggia intendesse parlar Vittore se della misura alessandrina, in uso nel paese donde spedivasi il grano, o del moggio romano misura in uso dove si consumava : poichè v'era questa differenza, che l'alessandrino, secondo i metrologi più accreditati Paucton e Romè de l'Ile pesava 20 libre 5/6 peso romano, ed il romano pesava 24 libre e stando al peso minore ne siegue che d' Alessandria spedivansi ogni anno a Roma pel suo consumo circa 650, 000 rubbia di grano, misura odierna. Questo dato per se stesso troppo vago, fortunatamente viene rischiarato dallo scritto, che va sotto il nome di Egesippo, ma che certamente appartiene al principio del secolo V. della era volgare, nel quale lib. II. c. IX. leggesi, che il grano spedito a Roma dell' Egitto ai tempi di Augusto ba

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stava solo per quattro mesi alla consumazione della cit tà: cuius tamen nova gratia et naturalis fecunditas Romanis militat ut quatuor mensibus dominos alat. Supponendo pertanto approssimativamente il consumo annuale di ciascun individuo un rubbio, come suol calcolarsi, ne segue che la popolazione di Roma ai tempi di Augusto montava ad un millione e 950 mila abitanti poichè triplicando 650,000 rubbia, che consumavansi in quattro mesi si ha la cifra 1,950,000. Numero non eccedente considerando la potenza a che Roma era pervenuta ai tempi di Augusto. Questo calcolo approssimativo trova una conferma in Sparziano, il quale nel capo ultimo della vita di Severo dice, che morendo quell'imperadore lasciò un livello di sette anni, così chet ogui giorno potessero distribuirsi 75 mila moggia di grano queste essendo certamente moggia romane, e secondo il calcolo di Romè de l'Ile calcolandosi a 24 libre ciascuna, danno un prodotto di un millione ed 800 mila libre che si distribuivano ogni giorno alla classe più povera di Roma, cioè a soldati veterani, a servi indigenti, a servi, che aveano qualche relazione col palazzo, a persone bisognose, ad operai del commune della plebe, e via via; ma, come è naturale, da questa distribuzione erano esclusi non solo, i grandi, ed i facoltosi: ma tutti coloro che aveano modi fissi di sussistenza, e tutti quelli che erano al servizio di queste classi. Casaubono nelle note a Sparziano restringe a 600,000 gl' individui che riceveano questo soccorso, quindi sotto Severo a circa 1,800,000. abitanti ammontava la popolazione di Roma; ma osservando che difficilmente distribuiscono più di due libre di pane agli uomini ogni giorno, perchè sufficienti al consumo un giorno per l'altro, messi insieme i piccoli, ed i grandi, il calcolo crescerebbe ancora, e portebbe la popolazione di Roma sul

principio del III secolo, quando io credo che fosse la massima, ad oltre i due millioni. Da queste osservazioni risulta che la popolazione massima di Roma non abbia mai ecceduto la cifra indicata di poco meno, poco più due millioni di abitanti. Così può darsi ragione della capacità de' grandi edificii destinati agli spettacoli, come i circhi, gli anfiteatri, ed i teatri, frai quali il Circo Massimo secondo la Notizia conteneva posti per 485 mila persone, l' Anfiteatro Flavio per 87 mila e ciascuno de' teatri per circa 30 mila così pure si conosce la ragione perchè le case si portassero ad un'altezza tauto eccedente che Augusto dovè fare una legge per impedire la rovina de' nuovi edificii di non alzare le fabbriche sulle strade pubbliche più di 70 piedi siccome si trae da Strabone lib. V. c. III. §. 7. E che alte molto fossero le case lo dimostrano Seneca Controvers. lib. II. §. IX. Plinio Hist. Nat. lib. III. c. V. Tacito Annal. lib. XV. c. XLIII. e Giovenale Sat. III. v. 269:

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Quod spatium TECTIS SUBLIMIBUS unde cerebrum

Tecta ferit, quoties rimosa et curta fenestris Vasa cadunt, quanto percussum pondere signent, Et laedant silicem."

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E quella legge augustana fu confermata da Nerone doро l'incendio e modificata da Trajano secondo Aurelio Vittore Epitome c. XIII. il quale dice che quell'imperadore ordinò che l'altezza delle case non oltrepassasse 60 piedi: statuens ne domorum altitudo sexaginta superaret pedes, ob ruinas faciles et sumtus si quando talia contingerent exitiosos. E celebre la per quantità de'piani che conteneva e per l'altezza della mole era l'insula Feliculae nella regione IX. ricordata dai regionarii e da Tertulliano contra Valentinianos c. VII. il quale dice: Meritorium factus est mundus: INSULAM FELICULAM credas; tanta tabulata coelorum, nescio

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