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dergli tutto quello che, salva la libertà, si potesse. Vana lusinga, riputare le preghiere e i mezzi partiti sufficiente pascolo a chi coll' arme del tradimento tutto pretende! Tornò il secondo tentativo degli oratori milanesi al medesimo risultato del primo. Allora questi, tra supplicanti e sdegnati, col volto acceso, col cuore trepidante: « quanto la Repubblica giovato lo avesse, gli ricordarono; di quanta perfidia ora sarebbe tradire lei confidata nei ricevuti giuramenti e nei benefizii impartiti. Ricordassesi di quel tempo nel quale, spoglio di denari, di soldati e di viveri, scomunicato dal papa, combattuto dai Veneziani e dal re di Napoli, in odio al genero, allo suocero ed al proprio fratello, mal sicuro dei Fiorentini, esule da un dominio non più suo, ad essi Milanesi aveva chiesto, e non indarno, quel nome e quel soldo di capitano, per cui si era rilevato dal più basso al più alto stato. Nondimeno avere poco dopo rapito loro Pavia e Tortona, ed eglino creduli non solo essersi taciuti, ma avere confidato in lui le speranze e i timori, il nerbo e la salute di tutta la città. Ora poi, quasi in premio di tanta fiducia, mostrarsi lui prontó a voltar le armi contro Milano, e convertire la vittoria in infortunio, i negoziati di pace in accrescimento di guerra. Ma se un Dio v' ha lassù propugnatore del giusto, bene egli sosterrà i diritti degli innocenti ed ingannati cittadini! »

Il conte, mitigando l'acerbità delle parole col suono della voce e colla maestà dell'aspetto, e mescolando proteste di perdono a lontane minaccie d'assoluto signore, concluse, che siccome essi gli avevano impedito l'acquisto di Brescia e di Verona, ed avevano

aperto segrete trattative di accordo coi Veneziani, così in quel fatto non dovevano imputare nessun altro che se medesimi, di slealtà e di tradimento. Ciò detto, li congedo. Ma tosto manda a Milano Benedetto Riguardati, uomo suo fidatissimo, acciocchè, sotto pretesto di far vedere a quel Consiglio la integrità del procedere di Sforza, ne ravvivi i partigiani, e vi semini discordie, comune strumento di tirannide (1).

Perorò il Riguardati nel consiglio: e già in conseguenza del suo ingegnoso discorso molte affezioni verso lo Sforza eransi risvegliate, molta ira contro di Jui si era ammorzata, e molto desiderio suscitato di una onesta e pacifica dominazione; quand'ecco Giorgio Lampugnano lanciasi alla tribuna, e con terribile foga, con voce tuonante, con disperati gesti rappresenta alle menti sbigottite i danni che si possono aspettare dalla signoria di un uomo solo, già offeso e nemico: Nella vita passata di questo Sforza avere Milano un'arra dell'avvenire: costui, che da privato non conobbe gratitudine, nè moderazione, nè fede, nè umanità, quanto peggiore non sarà sul trono allorchè la sua volontà non trovi altri limiti che in se stessa! Nei fratelli, nei figliuoli, nei consanguinei, tutti di vil sangue e di illegittimo nascimento, prepararsi a Milano vendette, esigli, supplizii, spogliazioni, stupri, insomma un pubblico e privato servaggio; nè dubitino i Milanesi, che il castello di porta Giovia, testè da loro gettato a terra, rinnalzerassi a suggello di perpetua miseria !

(1) Machiav. Stor. Fiorent. VI 92. - Joh. Simon. 1. XV. p. 496.

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A queste concitate parole, a questa viva immagine di desolazione, come un tuono di voci levossi nell' assemblea ad acclamare la guerra. Incontanente intimano pena del capo a chi solo pronunci il nome di Sforza, consegnano all'arbitrio di Carlo Gonzaga e di Francesco Piccinino il governo della città e della milizia, e mandano ambasciatori ad implorare aiuto dall'imperatore, dal re di Napoli, dal duca di Savoia, dal re di Francia, insomma da tutta Europa, disposti a non cedere a Sforza di Milano che cenere e rovine. Tali furono le risoluzioni, degne d'ogni più alto A. 1449 paragone: ma il momentaneo impeto di una cieca moltitudine non condusse mai a verun giusto risultamento. Già erano stati schiantati dai palagi i marmi e le colonne, affine di formarne molini a braccia, e sovvenire al difetto delle farine; e tuttavia molto più della fame e della guerra si facevano sentire dentro Milano le fazioni, mortal piaga d'ogni stato novello. Alla nobiltà ghibellina, fautrice alla lontana dello Sforza, sovrastavano per numero e per insolenza i Guelfi plebei, come più insueti al comando, così più audaci e tumultuarii. Favoriva poi costoro, lusingandoli con pranzi e con ciancie, Carlo Gonzaga capitano della milizia, sia che a ciò fosse mosso dalla ambizione del comando, sia che vi fosse indotto dalla speranza di usurpare la città per se stesso, o di farne lucroso mercato col nemico. Di qui proveniva una esacerbazione d' odii ne' Ghibellini; posciachè aggiungevano al dispetto di vedersi tuttodi conculcati da un volgo già solito a prostrarsi loro dinanzi, il timore di cadere nelle mani di lui, odiatissimo per indole superba e violenta.

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Dopo qualche esitazione giudicarono, essere meglio sottomettersi volontariamente alle leggi di un solo, che curvarsi ai pazzi capricci di un vile popolaccio. Cominciarono adunque una occulta negoziazione con Francesco Sforza, fattosene capo il Lampugnano, nel quale il desiderio di libertà aveva ceduto il luogo allo sdegno. Scoperta la trama, per pubblici e per segreti supplizii fu oppressa. Intanto crescevano insieme col senso dei mali la rabbia e la insolenza della plebe: talchè, sotto nome di libertà e di pubblico zelo, avresti ovunque mirato sangue, rapina, oppressione e violamento d'ogni cosa sacrà e profana (1).

Digià Francesco e Iacopo Piccinini, indotti parte 45 genu. dalla necessità, parte dall' odio verso il Gonzaga erano passati agli stipendii di Sforza, che tosto con grandi e solenni feste aveva fidanzato al secondo di essi la propria figliuola Drusiana (2). Da ciò Sforza aveva preso animo di porre il campo a Monza. Senonchè in entrambi quei fratelli tanto durò la fede quanto il bisogno. Sorta appena la primavera, entrarono in Monza, ne assunsero la difesa, e consegnarono ai Milanesi la terra di Marignano che avevano ricevuto in custodia. Francesco Sforza accorse ad oppugnarla: il popolo milanese, quasi per comune impeto, risolse di tentarne la liberazione. Escirono a quest'effetto dalle mura ventimila cittadini e diecimila soldati, qual più qual meno armati, e molti forniti anche di schioppo, strumento non ancora adequatamente

(1) Fr. Philelph. Epist. 1. VI. passim (Venetiis 1502). Rosmini, Vita del Filelfo, t. II. p. 30-41.

(2) Sanuto, 1131. 1134.. A. Navagero, 1113.

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stimato ed adoperato. Con tutto ciò i capi che guidavano questa moltitudine di gente vogliosa ed imperita non riputarono conveniente di metterla alla prova colle vecchie bande sforzesche: laonde, fatta appena qualche dimostrazione, la ridussero a casa. Così cadde Marignano; e dopo una meravigliosa difesa, degna 3 giugno delle grandi memorie della Grecia e di Roma, seguitonne l'esempio la città di Vigevano, smantellata di mura, e tutta sangue non meno per le ferite dei proprii cittadini, che per quelle de'suoi assalitori (1).

V.

Fra queste estremità la signoria di Venezia, non tanto commossa dalle fervide istanze de' Milanesi, quanto sbigottita dai soverchi progressi di chi li oppugnava, intrometteva parole di pace, a condizione che Sforza ritenesse per sè le città di Parma, Pavia, Cremona, Piacenza, Alessandria, Novara e Tortona : l'Adda segnasse i confini di S. Marco, e tra esso fiume, il Ticino il Po fosse compreso il dominio della repubblica milanese. Cinque anni addietro Francesco Sforza non avrebbe certamente osato sperare simili offerte: ora esaltato dalla crescente prosperità, non che sperarle, stimolle minori di sè: tanto è proprio degli uomini d'alta fortuna il passare velocemente dall'una brama all'altra, e lasciando al continuo dietro di sè nuovi emuli e compagni e divisamenti, poggiare a una meta non mirata prima. Giunti colà, il mondo attonito li contempla; e ad essi è facile

(1) Joh. Simonett. XVIH. 532. — Cagnola, Stor. di Mil, p. 113 (Arch. Stor. t. III). Crist. da Soldo, 859 ( R. I. S.

t. XXI).

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