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nascondere poi sotto altre sembianze quello che il caso o l'errore operò in loro vantaggio, e presentare le fasi della propria carriera come parti preconA. 1450 cepiti di un unico e perfetto disegno. Per simiglianti vie era a mano a mano salito Francesco Sforza infino al punto da non credersi soddisfatto dell'ampio dominio propostogli dai Veneziani, se ad esso non fosse unita la possessione di Milano istessa. Ond'è che nel suo interno si rise di quelle proposte: nulla di meno essendosi accorto che cogli indugi poteva accrescere a se stesso forza e riputazione, ed alla città assediata fame e tumulti, si finse proclive alla pace, e mandò a Venezia per trattarne il fratello Alessandro. Nel medesimo tempo, sotto il nome di una tregua, discostava l'esercito dalle mura di Milano, ma non però in modo che vi venisse menomamente facilitata l'entrata delle vittovaglie.

I Milanesi, ingannati da queste fallaci dimostrazioni, quasichè la guerra fosse finita, sortirono dalla città al suono festoso di tutte le campane, rivangarono in fretta i campi desolati, e seminarono il poco frumento che tenevano in serbo nei granai per più diuturna difesa. Ciò appunto desiderava ardentemente Francesco Sforza; giusta le istruzioni del quale il fratello Alessandro, addoppiando fraudolentemente difficoltà sopra difficoltà, traeva in Venezia ogni giorno più in lungo il negoziato. Stretto alla fine dal senato a sottoscriverlo oppure ad andare in prigione, sottoserisse e fuggì. Ma Francesco Sforza, col parere dei professori di Pavia, dichiarò nulla la sottoscrizione e trascorso il suo mandato, e senza indugio incominciò la guerra

contro a Milano ed a Venezia insieme alleate (1). Qual rimanesse a così fatto colpo l'animo dei Milanesi è facile immaginare. S'aggiungevano a cotesti mali la fellonia di Carlo Gonzaga che era non solo passato ai servigi di Sforza, ma gli aveva altresì consegnato Lodi e Crema, e la morte di Francesco Piccinino, prodotta non meno da idropisia, che dallo sdegno delle proprie avversità e dell' altrui fortuna. Ogni speranza dei cittadini stava adunque raccolta sopra i soccorsi promessi da Venezia; ma primachè questa potesse riunire tutte le soldatesche, preporvi un esperto capitano, mandarle di qua dall'Adda, e mediante qualche segnalata fazione liberar Milano dall'assedio, a quanta fame, a quanti stenti non dovevasi ancora soggiacere! S'era bensì Iacopo Piccininocondotto a Como, affine di accozzarsi con Bartolomeo Colleoni generale dei Veneziani, e spingere poscia in città le vittovaglie; ma Francesco Sforza con accorte mosse gli impediva di andare innanzi e indietro; sicchè per ciò appunto i Milanesi trovavansi senz'altro compenso privati di una parte dei difensori.

Eppure, benchè tutto il dominio fosse oramai perduto, e tutte le forze ed i destini della Repubblica stessero come concentrati in Milano, non cessava tuttavia d'imperversarvi la matta plebe. Puniti, non che le opere, i detti ed i pensieri; dovunque spie, dovunque accuse e castighi secondo amore di parte e privata passione; la nobiltà perseguitata a morte, straziatine i palagi, rubatene le suppellettili, ascritti i natali a delitto; e mentre Guelfi e Ghibellini

(1) Joh. Simonett. XIX. 570. Sanuto, 1135.

studiano a sopravanzarsi con più esagerate proteste contro Sforza e la tirannide, i pochi buoni in disperato silenzio sono costretti a maledire il nome di libertà. Frattanto una orrenda fame di un anno li pareggiava tutti in una miseria; e le più vili erbe, e i più schifosi animali, tutto era stato divorato. Morivano adunque per le vie, sopra le soglie de' templi, tra i singhiozzi, d'inedia, oppure in disparte, quasi per non accrescere coll'aspetto dei proprii mali gli altrui, vecchi, fanciulle, madri coi pargoletti al seno. Insomma, se resistevasi tuttavia, resistevasi non tanto per la speranza dei soccorsi, quanto per odio smoderato, e per disperata e quasi folle ostinazione (1).

In tanta miseria accadde che due cittadini del quartiere di Porta nuova, disputando un po' forte intorno alle cose presenti, trassero ad ascoltarli in cerchio quei che passavano: la radunanza per altri ed altri accorrenti ingrandi; questi rinfiammarono la disputa: bentosto accorse al rumore tutto il quartiere; nè passò gran tempo, che vi si trovarono affollati tutti i malcontenti della città a schiamazzare contro la reggenza, e proporre in confuso mille rimedii. La reggenza, che in questi frangenti si era vestita di maestà, di forza e di costanza degne di miglior sorte, dapprima spedi alcuni cittadini, poscia il capitano di giustizia coi birri e colle forche a sbandare la rau

(1) « Neque hic esse licet sine periculo; nec alio ire permit«titur.... nec humanis nec divinis parcitur rebus.... Passim << atque catervatim moriuntur inedia.... » Fr. Philelph. Epp. I. VII. p. 46. — Al Filelfo, come sospetto di parteggiare per Sforza, era negato il pane che la città distribuiva giornalmente agli abitanti.

nata. A tal vista la disputa degenerò in tumulto, il tumulto in ribellione ; suonaronsi le campane a stormo, tutta la plebaglia afferrò le arme, e, oppressi i birri, sotto un Gaspare da Vimercato segreto amico e antico soldato di Sforza, sfondò le porte del consiglio, uccise sulle scale l'ambasciatore veneto, e ne discacciò i senatori.

1450

Il giorno dopo nell'assemblea generale raccolta 26 febb. nel duomo si pose il partito di sottomettere la città a qualche principe. Nominossi a tale effetto il duca di Savoia, il re di Francia e quello di Napoli: dei Veneziani, stante la fresca uccisione del loro legato, e atteso l'astio comune delle repubbliche, non si fece motto: del conte Sforza, quantunque tutti con diverso senso di tema o di desiderio l'avessero in mente, niuno per rispetto al castigo minacciato ardiva muovere parola. Alla fine il Vimercato osò di pronunciarne il nome, e con caldo discorso escì a dimostrare l'utile, anzi la necessità del concedersi in obbedienza a lui, potente, vicino, magnanimo, e vittorioso sempre; e il popolo, quanto cieco a entrare ne' mali, altrettanto impetuoso nel sortirne, a piene voci ne confermò la sentenza. Tosto fu data commissione al Vimercato di andare ad offerire al conte la città. Ma non ne era egli appena pervenuto ai primi alloggiamenti, che la popolazione impaziente versavasi fuora delle mura incontro all'esercito vincitore; talchè pel tratto di circa 10 miglia più non avresti mirato che gente ancora mostrante i segni della ricchezza gettarsi ai piedi dei soldati, e strappare loro dal collo e dalle braccia il pane, di cui per ordine di Sforza si erano caricati. Solo Ambrogio Triulzio, che con una mano di gene

rosi amici si era fermato alla guardia di Porta Nuova, veggendo il Conte portato dalla ebbra plebe dentro in città, con fermo viso ardi arrestarlo e richiederlo, che prima di entrare giurasse i patti. «Non io, se lo avessi saputo, mi sarei condotto sin qui, rispose il vincitore: ma forse ci avrei trovato altro ripiego ». Nel medesimo tempo il Vimercato faceva a forza spalancare la porta, e metteva dentro il novello signore, in mezzo alle festose grida di « Sforza e duca ».

Seguitato dalle squadre a cavallo, pieno di maestà e di quieta gioia l'aspetto, marciò Francesco Sforza nell'acquistata terra fino al duomo. Quivi rese grazie all' Altissimo di tanta sorte. Giunto in Piazza d'Erbe, così com'era a cavallo, si ristette alquanto avanti alle case dei Marliani per refiziarsi con un pane di miglio ed un sorso di vino. Quindi commise al Gonzaga il governo della città, ed esci da Porta orientale, per ispingervi da ogni parte le vittovaglie desiderate. Trenta giorni furono bastanti al Gonzaga per togliere di mezzo coll'esiglio o col carcere i cittadini più sospetti. Ciò fatto, Francesco Sforza rientrò in città trionfalmente insieme colla moglie e coi figli; 25marzo ma tra i conviti e i tornei dava subito principio alla nuova dominazione col rifabbricare la rôcca di Porta Giovia, la quale solamente da 31 mesi innanzi era stata demolita (1). Indi a non molte settimane quel medesimo popolo che aveva proibito sotto pena di morte di pronunziare il nome di Sforza, ed anzi gli aveva posto sul capo una taglia di 20,000 ducati, non

(1) Joh. Simonett. XXI. 600.—Cristof. da Soldo, 863. Sanuto, 1137.-Navagero, 1114. Ant. de Ripalta, 901. Cagnola, St. di Mil. I. II. p. 128.

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