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tarsi Perugia, perchè sua patria, e Bologna, perchè abitata da alcuni suoi partigiani. Imperò rivolse le schiere addirittura verso la Romagna (1). Ma pochi giorni bastarono a mutargli in molto amaro il poco dolce di quelle sue speranze. Perugia, chiuse le porte, si ristrinse a mandargli alcuni presenti di pane e di confetti; Bologna, da lunga mano provveduta contro ogni assalto, ributtollo molto più aspramente. Allora il condottiero scagliasi, come folgore, sul contado di Siena, che per la lunga tranquillità era sfornita di difesa.

Fu inopinato l'assalto, come terribili i primi effetti. A prima giunta le campagne vennero desolate, e le terre di Sartiano, Cetona, Manciano, Montemarano e Orbitello espugnate e messe a sacco. Tosto l'odore dell'abbondante rapina acquistò al Piccinino tanti nuovi seguaci, che la sua compagnia prese forma di uno giusto esercito. Ciò indusse il papa e il duca di Milano a radunare in fretta molta soldatesca e inviargliela contro sotto il comando di Roberto da Sanseverino, e di Corrado Fogliano. Il costoro arrivo interruppe al Piccinino il corso dei suoi progressi, e lo astrinse a fortificarsi in una cupa selva presso il fiume del Fiore; i confederati gli si accamparono dappresso quasi a modo d'assedio; ma, come superiori di numero, senza guardie o trincieramenti. Il seppe egli; e subito colla solita furia proruppe a sorprenderli. Nel primo impeto ne tagliò a pezzi alcune schiere; quindi, venendo a poco a poco sopraffatto dal numero, con più ardire

(1) Boninc. Ann. Min. p. 158 (t. XXI). — Cron, mise. 716. Spirito, l'altro Marte, 1. III. c. XC.

Bol.

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che fortuna seguitò a combattere fino a notte. Venuta la quale, posciachè vide che sia lo starsi sia il non vincere l'avrebbe in quel luogo menato ugualmente alla rovina, in gran segretezza piegò le tende, e camminando velocemente giunse prima a Castiglione della Pescara, che fra gli alleati ne sorgesse il sospetto.

Qualche ora più tardi questi levarono anch'essi le tende, e gli tennero dietro. Ma non osando inseguirlo fra le pestilenziali paludi, dentro le quali s'era egli rifuggito, circondarono il luogo pel tratto di otto miglia con tutto l'esercito. In breve i seguaci del Piccinino, costretti a nutrirsi di acerbe prune e corniole, ed a bere acqua melmosa e putrefatta, cominciarono per defezione e mortalità a venir meno. Cercò egli di uscire d'impaccio col far rubellare ai Sanesi alcune squadre rette da un Giberto da Correggio; ma questa trama fu anch'essa antivenuta. Allora mandò al duca di Milano un foglio di carta bianca, pregandolo a scrivervi quei patti di accordo che gli piacessero, e con supplichevoli istanze si raccomandò al re di Napoli Alfonso.

Questi, che per effetto delle ciancie del Porcelli aveva concepito una straordinaria idea del Piccinino, non solo s'intromise a suo favore, ma propose di assoldarlo per capitano generale di tutta la lega d'Italia, colla provigione di centomila ducati. Il partito come ignominioso fu rigettato dagli altri principi; tuttavia, non senza gravi dispute e tergiversazioni, si piegarono a concedergli pace a patto che restituisse incontanente per ventimila fiorini le terre occupate al Comune di Siena, e si recasse ai servigi del re, che gli offeriva una condotta di 1200 cavalli e di 600 fanti.

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Ratificato l'accordo, Iacopo inviò le sue genti ai quar8 Sbre tieri d'inverno nell' Abruzzo e coi più cari compagni si rivolse verso Napoli, dove fu ricevuto come in trionfo. Indi a non molto una guerra accesa in Romagna tra due famosi condottieri, lo richiamava ad altri travagli (1). Ma prima di passare a narrarla riputiamo pregio dell'opera di accennarne brevemente le origini.

Pandolfo Malatesta, il famoso capitano che al tempo di Gian Galeazzo Visconti usurpò le città di Bergamo e di Brescia, lasciò nel suo morire due figliuoli, Sigismondo e Malatesta. Di questi non mai la natura aveva prodotto i più dissimiglianti. Malatesta timido, proclive al vivere tranquillo, alle lettere ed ai godimenti della vita: Sigismondo tutto ambizione, tutto guerra, tutto empito. Quegli, non che desiderare l'altrui, cedette al fratello il governo di Cesena sua propria dominazione: questi, non che serbar il proprio, con tale sfrenatezza appeti l'altrui, da generare nei principi suoi vicini odio e spavento incredibile, ed a se medesimo poi l'ultima rovina. Infatti, fosse buono, fosse cattivo, qualsiasi mezzo era sufficiente per lui. Nella guerra superiore, dopo avere ricevuto trentamila ducati dal re di Napoli coll'obbligo di radunargli una compagnia, non solo non attenne la promessa, ma di quei denari si servi contro il re medesimo, ed alle giuste querele del re rispose colle beffe. Francesco Sforza gli aveva impalmato una propria figlia; e Sigismondo fu dei primi ad abbandonarlo

(1) Machiav. VI. 99. Joh. Simonett. 679. - Ammirato XXIII. 81. Capponi, Comment. p. 1216 (R. I. S. t. XVIII). - Spirito, L'altro Marte, c. XCII,

nell'avversa fortuna. Frattanto teneva continuamente lo sguardo rivolto ad insignorirsi di Pesaro, posseduta da un Galeazzo suo congiunto. Tentò di sorprenderla a viva forza e non gli riuscì; provossi ad ottenerla colle trattative, ed esse gli furono guastate da Alessandro Sforza, il quale coi favori del fratello, sia come dote della moglie, sia sotto titolo di compera, consegui la città per sè.

Di qui nacque in Sigismondo un mortalissimo odio non tanto ancora contro gli Sforza troppo potenti, quanto contro Federico da Montefeltro, conte di Urbino, il quale era stato intromettitore del negoziato. A questo motivo si aggiunsero altre ingiurie non ancora scordate: oltrechè la vicinanza degli Stati, l'emulazione nel mestiere di condottiere, e la quasi uguaglianza di forze somministravano giornaliera esca di inimicizie é liti. Cominciò Sigismondo dal tentare di avvelenare Alessandro Sforza: non essendogli succeduto il reo disegno, assentì a una tregua, e ne ricavò comodità per rubellare Fossombrone a Federico da Montefeltro: fatta la pace, aspettò che questi si A. 1447 trovasse lontano a militare, e gli assali tutto il dominio d'Urbino. A mediazione dei Fiorentini si rifece una tregua tra i tre contendenti; ed ecco Sigismondo avvisare tosto un'altra via per isfogare il proprio mal talento. Persuase ad Alessandro Sforza, che il conte Federico da Montefeltro era in trattato di rubellargli Pesaro; Alessandro, convinto di ciò per molti riscontri, arse di sdegno contro l'amico suo, e stabili per vendetta di sorprendergli Urbino. Scrisse perciò al Malatesta, comunicandogli tal pensiero, e chiedendogli aiuto per mandarlo ad effetto. Il Malatesta,

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presa la lettera, mostrolla a Federico, nè durò fatica a indurlo a credere di essere tradito da Alessandro Sforza, ed a risolvere di unirsi con lui per opporre violenza a violenza, ed inganno ad inganno. Deliberarono per prima cosa di occupare Pesaro, continuo segno dell'ambizione di Sigismondo: il quale, posciachè col braccio di Federico da Montefeltro avesse sottratto la città dagli artigli d'Alessandro Sforza, sperava di rinvenire qualche altro espediente per escluderne Federico, e restarne unico padrone.

In conseguenza Federico unì le sue genti a quelle di Sigismondo, e detto fatto si avviò verso Pesaro. Se non che per viaggio, essendosegli destato qualche sospetto intorno alla costui fede, lo richiese che gliene desse malleveria. Il rifiuto di Sigismondo accrebbe le diffidenze di Federico, e bentosto tutta la macchinazione uscì in chiaro. Incontanente, mutato animo, questi entrò in Pesaro come amico, e bravamente la difese contro il traditore Malatesta. Quinci arse una mortalissima guerra tra costui, Federico d'Urbino e Alessandro Sforza, finchè, per interposizione del duca di Milano, stipularono un accordo, e Federico passò ai servigi del re di Napoli (1).

Ma non per ciò Sigismondo si ristette dalle solite molestie; anzi in un congresso di principi e di ambasciatori, che si era radunato a Ferrara per consolidare la pace, non temè di metter mano, in luogo di ragioni, alla spada. Impertanto Federico propose al re di Napoli di vendicare una volta le comuni in

(1) Baldi, Vita di Federico duca d'Urbino, 1. II. III. passim (Bologna, 1826).

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