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Dalla partenza del duca Giovanni d'Angiò
alla calata del re Carlo VIII.

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Spentii signori di Caldora e quei da Marzano, abbat→ tuti gli Orsini ed i Sanseverini, infine colle prigionie, cogli esigli, coi supplizii, colle spogliazioni, a dritto e a torto, in mille modi, sotto cento forme di legge e di violenza atterrato tutto quanto restava nel regno di Napoli di illustre e di potente, s'appresentava ancora terribile allo sguardo del re Ferdinando quel lacopo Piccinino; al quale, oltre la grande fama ed i non piccoli dominii e i molti amici dentro e fuori dello Stato, accrescevano pregio e ardire le memorie del padre, del fratello, di Braccio, e di tutta la scuola in lui, come in un comune germoglio, riunite. Nè dal Piccinino era punto ignorato l'animo ostile del re verso di esso lui; nè gli esempi di tanti amici indegnissimamente sterminati, e ancora il recentissimo di Marino duca di Sessa, contro ogni ragione, contro ogni onestà, contro i vincoli del sangue, preso e dispossessato per ordine del medesimo Ferdinando, potevano indurlo ad altro che a provvedere, mediante un pronto allontanamento, alla propria salute. Perciò, essendo venuto il termine del primo anno della sua condotta,

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mandò supplicando al duca di Milano, acciocchè lo volesse ricevere ai suoi stipendii e concedergli alfine quella Drusiana che da ben quindici anni gli aveva fidanzata. Nel medesimo tenipo lo pregava a spedirgli un personaggio di conto, alla cui protezione affidare, durante la propria assenza, le terre possedute nel regno. Ciò conseguito, con 200 compagni si incamminò verso la Lombardia.

Vivevano ancora nella memoria dei Milanesi le gesta agosto di Niccolò Piccinino: poi, siccome quelle di Francesco e di Jacopo di lui figliuoli si rannodavano alla idea di una libertà sognata o goduta tre lustri addietro, così vi rendevano grande e riverito il costui nome. Proruppe adunque fuori tutta la città ad incontrarlo in trionfo, e fra le grida di Braccio e Piccinino accompagnollo lietamente dentro le mura. Ma alcuni sinistri presagi e lontani avvisi avevano per via travagliato la mente del condottiero: talchè a stento e quasi per forza aveva proseguito il cammino, quantunque le città di Bologna e di Firenze se gli fossero fatte garanti della fede di Francesco Sforza. Poco dopo il suo arrivo lacopo ne sposò definitivamente la figliuola Drusiana; ma stante la morte di Cosimo de' Medici, amicissimo del duca, le nozze si conducevano meste e silenziose.

Al sorgere della primavera rinacque in Iacopo il A. 1465 desiderio di rivedere le sue soldatesche, raffermare colla sua presenza le nuove sue possessiori dell'Abruzzo, e quindi ritornare ai soliti esercizii del guerriero. Colà, fra le squadre, sotto le tende, od all'aperto cielo, gli pareva che fosse il suo regno, la sua patria, la casa sua; le pompe noiose di una regal

Corte per lui non servivano se non se a rappresentargli sempre sotto diversi aspetti una sola idea di ozio e di dipendenza. Cominciò pertanto dal mandare a Napoli il suo cancelliere Brocardo Persico, affinchè trattasse con quel re della sua riferma. Costui dopo breve tempo scriveva al Piccinino, d'essere stato accolto con indicibili feste: avere il re di quella cosa squisito desiderio: venisse adunque senz'altri indugi a cogliere nuova gloria e nuovi favori».

A questa medesima risoluzione era Iacopo eziandio instigato ogni di dal duca Francesco Sforza: ma egli (narra un contemporaneo) sempre mai ricusando diceva allo suocero: Deh, signor mio, non mi vi ▪ mandate, perchè mai non ne uscirò che egli non mi faccia morire. E questo diceva per la guerra grande che gli avea fatto a posta del re Raineri (1). . Il prefato duca sempre dicendo, sopra della mia testa ⚫andate, e non vi dubitate. E così il povero capitano vi

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ando; il quale fu mandato alla beccheria; e nel cammino lasciò la sua donna a Cesena e un suo • figliolo, ed egli andò a Napoli e menò seco un suo figliolo. E nota che, andando egli in giù per andare • a Napoli, un figliolo del re si parti da Napoli con ben 500 cavalli per venire a Milano a torre un'altra figliola del detto duca, che l'aveva data per donna « a un fratello di quello che andò a torla.... Frat⚫ tanto il conte Jacopo entrò in Napoli, al quale fu « fatto per quel re degli onori che fecero i Giudei a « nostro signore Gesù Cristo la domenica d'olivo, e « poi il presero e misero in croce. Così fece quel re.

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(1) Intendi del re Renato e del duca Giovanni di Angiò,

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« Egli venne incontro al detto conte Iacopo con tanto « trionfo, e condusselo in Napoli, e li stette ben ven«tisette giorni, ogni giorno crescendogli gli onorî, e «stava tanto a mettergli le mani addosso per aspet« tare il figliolo e la sposa che venissero al luogo « sicuro. E intendendo il re, che il figliolo e la sposa « si erano fermati in Firenze il giorno di S. Giovanni « per vedere la festa, in quel giorno proprio fece il «re Fernando pigliare il conte Iacopo, che fu ai 24

giugno, e lo prese in questo modo. Il giorno di «s. Giovanni tra le venti e ventun'ora gli disse: « 0 « conte Iacopo, io v'ho mostrato tutto Napoli e tutte le mie cose; adesso voglio mostrarvi il mio tesoro ». « E il conte pregandolo, che gli volesse dar licenza oramai, e gliela aveva domandata più fiate, ed egli lo teneva a ciancie per aspettare il figliolo e la sposa, come è detto di sopra. E condusse il detto <conte lacopo nel castello, e quando furono in una «sala, il re tolse licenza da lui, dicendo: ritornerò « subito. Partito che fu da lui, sopravvenne una frotta di Catalani armati, e cacciarono le mani a «petto al conte lacopo dicendo: « Sta forte, conte Iacopo, tu sei prigione del re. E con queste parole fu messo in prigione egli e certi altri de'suoi. Ora « la novella andò per tutta quanta Italia, a tutti i

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signori, soldati, e cittadini. A caduno rincresceva « di tanto tradimento. I cavallari di e notte cammi• navano ora in quà ora in là. Chi diceva: « Egli l'ha falto decapitare lui e il figliolo». Chi diceva: « Non « è vero ». Chi diceva: « egli sta ritenuto e il figliolo « e la sposa dai Perugini ». Chi diceva di no. Alla ⚫ fine la detta sposa stette in porto a Siena ben due

⚫ mesi e mezzo. Poi per comandamento del duca di Milano suo padre si mise in cammino e andò a marito. E chi ebbe il male, suo danno. Per tutta • quanta Italia si diceva, che il duca di Milano l'avea « mandato alla beccheria e che il re di Napoli era stato ■ il boia (1) ►.

Così si propagò, così perpetuossi fino ai nostri tempi cotesta voce nemica alla riputazione di Francesco Sforza: uso dei popoli trovare in ogni cosa materia di calunniare i principi! Uso dei principi darne troppo sovente cagione ai popoli! Appena adesso i documenti officiali pubblicati or fa venti anni da un accurato ed onesto scrittore ne danno diritto di lavare il nome di quell'illustre principe e condottiero da siffatta ingiusta imputazione. Que' documenti un maligno avrebbe potuto consumare, un incurioso disperdere, il fuoco, l'acqua, l'ira degli uomini, le ingiurie del tempo

(1) Crist. da Soldo. 903 (t. XXI).

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In questa opinione, oltre il Machiavelli, molto sollecito indagatore delle colpe dei grandi, s'accordano, tranne il Cagnola (St. di Mil. p. 170) ed il Simonetta (1. XXX. 762. segg.) ministri ed intrinseci del duca Sforza, tutte le memorie dei tempi; cioè i Giornali Napolet. (t. XXI. 1134), la Storia Napolet. (t. XXIII. 233), la Cronaca d'Agobbio (t. XXI. 1009), Girolamo Borselli (Ann. Bonon. t. XXIII. 895), la Cronaca di Bologna (t. XVIII. 760), il Diario di Ferrara (t. XXIV. 209), Gian Battista Pigna (St. de' Principi d'Este, 1. VIII. 581), Angelo di Costanzo (St. di Nap. 1. XX. 515), Paolo Giovio (Elog. viror. 1. II. 205), M. Antonio Sabellico (Ennead. X. 1. V. p. 319), e per finirla, il Corio (part. IV. 811), che, pure dedicando le sue Storie a uno Sforza, racconta che « tutto fu per opera del duca, il quale già dopo la morte <«< sua temeva, che la egregia virtù del Piccinino, quale avea « nell'arte della guerra benevolenza non solo in Italia e Lombardia, ma anche in Milano, non fosse dannosa a'figliuoli ».

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