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avrebbero potuto distruggere le mille volte: per giungere infino a noi dovettero trionfare di tutti questi pericoli durante tre secoli e mezzo: a tanto tenui fili è talvolta attaccata la storica verità!

S'era il duca veracemente pacificato col Piccinino: dato gli aveva in isposa la figliuola; dato gli aveva 90 migliaia di ducati in dote, ed onorevole ospizio di molti mesi in corte; nè l'animo buono, sebbene incostante e tumultuario, di lacopo, insieme con le carezze della consorte, aveva tardato conciliargli l'amore del vecchio duca bisognoso di acquetare in dolci affetti gli ultimi giorni di una vita agitatissima. Dopo essersi perciò affaticato per ottenergli dal re di Napoli condizioni di assoldamento vantaggiose al possibile, l'aveva Francesco Sforza, nel congedarlo, raccomandato colà al proprio oratore Antonio da Trezzo, affinchè questi vedesse modo di fargli conseguire la riferma e le altre cose promesse dal re, e di integrarlo, intrinsecarlo e incorporarlo nell' amore della prefata maestà (1). Oltre a ciò assegnò a lacopo per compagno Pietro Pusterla, acciocchè nel viaggio gli valesse di schermo. Con questi favorevoli auspizii lacopo separossi dallo suocero.

Traversata felicemente l'Italia, a Sulmona lasciò la 31 magg. moglie Drusiana, da Benafro a Tiano fu accompagnato da D. Enrico figliuolo del re, ed era ancora distante parecchie miglia da Napoli, quando il re stesso gli si affacciava a cavallo con tutta la corte e il consiglio, e dopo molti baci e vivissimi amplessi lo scorgeva in persona fino alle stanze a lui destinate.

(1) Rosmini, St. di Mil. Doc. XXV.

Ci ha il tempo conservato i dispacci, nei quali Antonio da Trezzo non senza molta letizia racconta al duca di Milano le particolarità di codesto accoglimento degno di ogni gran principe: e ancora ci è dato di leggere la lettera scritta da Iacopo medesimo al suo suocero affine di partecipargli « le grate acco⚫glientie, honore et careze per questo serenissimo

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signor re a me per reverentia de la S. V. facte »; é come per l'intermezzo del Brocardo e del Pusterla si fosse il re piegato a sborsargli subito 25,000 ducati, éd a fargli delle restanti sue paghe un assegno conveniente; e come egli avesse prestato al re medesimo 8000 ducati: « il che ho facto volentieri, et non solamente de questo, ma del sangue proprio li compiaceria; e come fosse stato creato vicerè dell' Abruzzo; tantochè gli paresse « d'esser cosi contento • come mai fosse a li di della mia vita (1) »

D.

Così il misero, raggirato tra sempre nuove feste e onoranze s'illudeva sull'orlo del precipizio; nè sospettava pure, che a vibrare il colpo il re più non attendeva, se non che Ippolita figliuola di Francesco' Sforza, avviatasi da Milano per venire a sposare un suo figliuolo, si trovasse fuori dai confini di Lombardia. Il giugnere degli sposi a Siena diede come il segnale all'imprigionamento del Piccinino. Nel medesimo giorno Francesco Sforza ricevè la lettera de' suoi ambasciatori, dove questi gliene davano l'acerba novella, ed uno studiato e pomposo dispaccio del re, dove questi, dopo avere accusato il condottiero di tradimento, di intelligenze cogli Angioini, e di trame

(1) Rosmini, eit. Doc. XXVII.

coi baroni ribelli, rendeva conto al duca della sua presura, e gli concludeva dovere da essa dipendere la salute di entrambi, anzi quella di tutta l'Italia.

Pieno di dolore e di raccapriccio, tosto il duca rispose al Trezzo e al Pusterla, imponendo loro, che senza indugio si presentassero al cospetto del re, e lo pregassero e le scongiurassero per l'affezione, pel parentado, per l'onore comune di risparmiare i giorni di colui che, reo od innocente, era pure il genero dell'amico suo, e pur dianzi era stato accolto a Milano ed a Napoli con feste. E che penserebbe l'Italia dell'animo di Francesco Sforza, conoscendo l'amistà che passa tra lui ed il re di Napoli? Orrenda taccia di traditore soprastargliene, e tale, che quanta acqua fosse in Pò non la potrebbe lavare. Le tante fatiche sostenute da Francesco Sforza in servigio della casa d'Aragona aspettare ben altro premio. Donasse il re la persona del prigioniero alle preghiere del vecchio suocero, il quale, se così piacesse, ne guarentirebbe la fede colla parola di tutti i principi d'Italia, con tutto lo Stato, colle persone dei proprii figli, con tutto se stesso

Nè a ciò contento, scrive tosto ad Ippolita di sospendere il suo viaggio, ed invia verso Napoli il figliuolo Tristano coll'incarico di visitare per istrada i principi d'Italia, purgare presso di loro il nome paterno da qualsiasi imputazione, e ottenerne raccomandazioni in favore del Piccinino: quindi con esse presentarsi al re Ferdinando, e perorare con tutti gli spiriti la salute del cognato. Ma pur troppo Iacopo Piccinino si era circondato di tale grandezza, che sarebbe stato pel retroppo pericoloso il farlo prigione

senza ucciderlo. Uno schiavo moro col laccio ne tronco la vita.

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Si sparse poi voce, che il settimo giorno di luglio, volendosi egli appigliare alla grata della prigione per contemplare il combattimento di due navi, cadesse dall'alto, e si rompesse una coscia. Al Trezzo, che instava di vederlo, si concesse per grazia di osservarlo da lontano nel carcere senza parlargli, mentre che i medici ne curavano la piaga e ne presagivano male, ed egli gemendo se ne lagnava. A Tristano, che appena giunto chiese in ginocchio al re e a tutta 29 luglio la corte il corpo vivo o morto del cognato, non fu mostrata di lacopo Piccinino che la salma puzzolente e verminosa. Tristano domandò allora, che almeno si rimettessero in libertà il figliuolo Francesco, il cancelliere Brocardo, e gli altri più intimi seguaci del condottiero, che erano stati arrestati insieme con lui, ed ancor vivevano su ciò gli vennero date vane parole: ma i miseri non più furono veduti.

Come il duca di Milano ebbe piena conoscenza di tutto il successo, rimase compresó di sdegno e di stupore meraviglioso. Sulle prime deliberò di affidare alle armi le sue vendette, richiamò da Siena la figliuola Ippolita, e dispose ogni cosa per rompere il parentado concluso col re di Napoli, e voltargli contro le forze di mezza l'Italia: poscia le preghiere dei Fiorentini e del papa, le supplicazioni medesime del re, e la inferma vecchiaia, che lo avrebbe impedito di condurre la guerra in persona, lo ridussero a sopportare in pace l'inusitato scorno. Tale è la più probabile esposizione della morte di Iacopo Piccinino, il quale mori vittima soltanto del re Ferdinando: altre colpe pe

sano sul capo di Francesco Sforza, senza aggiungervi quella (1).

Fu Iacopo dotato di agîle é bella composizione di membra, e di subito e forte ingegno; in qualche parte si mostrò inferiore del padre, in tutto dappiù del fratello, che di pingue natura, prodigo del proprio e dell'altrui, era sovente maestro di crapula e di rapina ai soldati. La miserabile morte del Piccinino, essendo accaduta in un tempo, in cui le armi tacevano per tutta la penisola, gli accrebbe colla compassione la fama, e segnò il punto della totale sovversione della scuola bracciesca. Infatti, giusta un ordine già prima dato dal re, tutte le sue schiere vennero inopinatamente svaligiate e disperse: il seguito della pace, (1) Rosmini, cit. Doe. XXV-LII. Crist. da Soldo, 904. -Porzio, Congiura de' baroni.

Dal prefato Rosmini (Doc. XXXIX) è riportata per disteso una lunga canzone, composta in barbaro italiano, per la morte del Piccinino; nella quale il poeta invita a parte a parte ciascuna contrada d'Italia a piangerne il caso. Eccone il prin cipio:

1. « Pianga el grande e 'l piccolino

2.

De' Braceschi e ogni soldato,

Poichè è morto il nominato

Conte Jacom Piccinino.

Piangi omai casa Bracesca,

Piangi donna dėl Grifone, (Perugia)
Non c'è più chi fama accresca

Oggimai di tua natione;

Poichè è morto el gran campione

Capitano e sommo duce;

Specchio al mondo quale luce

De ogni franco Paladino.

3. Piangi tu, nobil signore

Di Ferrara etc.»>

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