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duca di Milano, il re Renato d'Angiò donaronlo del proprio stemma e nome: Venezia confermollo d'anno in anno per tutta la sua vita nel capitanato generale delle soldatesche da terra coll'aggiunta di diecimila ducati all'anno. In fine le solitarie mura di Malpaga, visitate da principi, da ambasciatori e da illustri personaggi che da ogni parte vi traevano per cagione di affari o per riverente curiosità, diedero non di radon similitudine di regali dimore; e celebri nelle meniorie dei tempi furono le giostre e le caccie e le simulate battaglie, colle quali il canuto condottiero ora vi accoglieva Borso d'Este, ora i figliuoli del duca di Milano, ora Cristiano principe di Danimarca.do

Del resto Bartolomeo Colleoni, veggendosi impedito dalla fortuna di perpetuare nei proprii figliuoli e nipoti quel nome, di cui era tanto geloso, pensò di immortalarlo con opere di beneficenza, le quali per lui ricchissimo ed alieno dalle vive faccende e dai caldi affetti diventavano in certo modo come un necessario sfogo. Perciò eresse un tempio alla Basella, fabbricò due monasteri a Martinengo, stabili a Bergamo un luogo pio di 5000 ducati d'entrata per maritare donzelle, ornò di rari marmice della propria statua la cappella di s. Giovanni Battista su quella tornare a servirla. Per l'altra parte il Colleoni prometteva di servire il duca con 1000 uomini d'arme e 1500 fanti armati et in punto alla costuma di Italia, senz' obbligo di passarli in mostra, ma solo di farli vedere al duca una volta all'anno in battaglia e si riservava il dritto di disporne a suo piacimento, senza renderne obbedienza ad altri che alla sbnemes persona del duca.

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Il contratto fu sottoscritto in Bruges, nel 17 di gennaio 1473 dal duca Carlo: ed è riportato dallo Spino cit. a p. 269.

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piazza, costrusse e destinò ad uso pubblico una gran parte della propria terra di Rumano, donò alla città di Bergamo i bagni solforosi di Trescore ed il canale dei mulini. Tutto ciò rimase a prova della bontà e della potenza di cotest'uomo, a cui la pace, anzichè levare, aggiunse lode e autorità.

La morte troncò il corso alle beneficenze del Col39bre leoni, quando già da sei anni la signoria di Venezia coll'ascriverlo al maggior Consiglio gli aveva dato quanto, salva la libertà propria, si poteva. Restarono di lui tre figliuole tra legittime e naturali, tutte e tre maritate nella famiglia dei Martinenghi, in altrettanti chiari ed amati suoi capitani. Tra esse Bartolomeo distribui i due terzi del patrimonio; quattromila ducati legò in dote ad altre due sue supposte; altri beni assegnò ad alcuni congiunti; destinò quattordicimila ducati a monasteri, chiese e luoghi pii, tutte le biade dell'annata ai poveri delle sue terre, tutti gli arnesi di casa ai suoi provvigionati e famigli. Oltre a ciò rimise i debiti a tutti i suoi massari e lavoratori; nè in tanta liberalità si scordò di un Simon pazzo e del Giannone, uomini della sua casa i più vili, delle cui facezie talora dilettavasi. Delle rimanenti sostanze, cioè pel valsente di 216,000 ducati, dichiarò erede la repubblica di Venezia, coll'aggiunta di un credito di 70,000 ducati, e d'altri 10,000 in contanti, i quali servissero ad elevargli una statua, e collocare in matrimonio povere donzelle. Però la sua effigie equestre scolpita dalla mano d'Andrea del Verrochio ancora ne raccomanda sulla piazza dei Ss. Giovanni e Paolo la memoria allo straniero (1).

(1). Una mattina questa statua fu ritrovata con un sacco

Mori il Colleoni di grande età, compiuto quasi il quintodecimo lustro, ma tuttavia così robusto, che passeggiava ogni mattina pel tratto di ben cinque miglia. Ebbe occhi neri e penetranti, corporatura diritta, alta e ben complessa, pelame anzichè no fosco e sanguigno: nei lineamenti poi, nell'andare, nell'atteggiarsi una certa virile bontà gli traspariva, che al primo tratto si conciliava riverenza ed affe zione. La universal voce lo tacciava di soverchia propensione verso le femmine; e già dicemmo de' suoi amori colla regina Giovanna. Narrasi a questo proposito di lui una risposta a chi gli riferiva che il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza lo aveva beffato di cotesta sua debolezza; anzi io molto più mi meraviglio, che egli in così giovane età da tanto odio sia preso verso le donne, che nè anco abbia potuto sopportare in vita la propria madre ».

Da ultimo non si vuol tacere l'entusiasmo, col quale la nobile gioventù d'Italia cercava sotto la disciplina del Colleoni non meno l'onore che l'obblio delle tirannidi domestiche; nè passeremo sotto silenzio che furono suoi allievi i Milanesi Giorgio Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti, finchè, morto lui, tornarono in patria alla uccisione del duca Galeazzo Maria, e al proprio supplizio (1). Quanto alle squadre lasciate da Bartolomeo dopo di sè, non soffer

in ispalla e una scopa in mano, forse per allusione alla rapacità esercitata in vita dal condottiero. Spino, VI. passim. - Corio, VI. 828.-Navagero, 1145.-Sanuto, 1191. 1203. -P. Jovii, Elogia, 237. — A. Cornaz. cit. V. 25-31.

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(1) V. la confessione dell'Olgiato fatta poco avanti la sua morte e riferita dal Ripamonti e dal Corio.

sero elleno altro capo a comandarle, che la memoria e la riverenza dell' estinto duce: e così durarono quattordici anni unite agli stipendii di Venezia.

IV.

Quetava di questo modo l'Italia, tranne alcuna A. 1477 contrada tra Roma e Napoli, da ogni strepito, di guerra; quando Carlo figliuolo di Braccio da Montone, uscito dagli stipendii dei Veneziani, formava il disegno di insignorirsi di Perugia, Gliene davano ardire gli esempi paterni, le esortazioni di parecchi cittadini suoi partigiani, le ciancie dei fuorusciti pari suoi, il sapervi amato e riverito il nome di Braccio, e il vedere se stesso potente in armi, e la città pel lungo riposo quasi inerme. Con queste speranze superò l'Apennino; ma essendosi i Perugini affrettati a confederarsi con Firenze, invano Carlo mise in opera ogni suo sforzo per espugnarli. Per la qual cosa, dopo A. 1478 avere depredato il Sanese, ritornò ai soldi di S. Marco. Quivi, con molta bravura, non solo difese dai Turchi le terre del Friuli, ma ricacciolli nella Bosnia (1). Essendo poi stato l'anno seguente spedito dai Ve-. neziani in soccorso de' Fiorentini, tal confusione destò nel costoro esercito colla memoria delle fa-zioni di Braccio e di Sforza, che per minor male la repubblica gli diede licenza di partire e guerreggiare Perugia. Ma questa volta, in cui pareva ogni cosa apparecchiata per coronare i suoi desiderii, gli furono essi impediti primieramente da una gravissima

(1) Ammirato, XXIII. 114. — Diar. Parmens. 284 (t. XXII). Machiav. Storie Fior, VII. 115.

1479

infermità, e quasi subito dopo dalla morte. Rimase di 17 58 lui un figliuolo per nome Bernardino (1).

Ben altre trame frattanto yenivano in luce, ultimi e individuali conati di una moribonda libertà. Sanguinose congiure contaminavano dapprima Ferrara e Genova, poscia Milano, poscia di nuovo Genova, e alla perfine Firenze; nella quale Giuliano de' Medici trucidato appiè degli altari lasciava al fratello Lorenzo insieme col vantaggio della vendetta la signoria intiera della patria. Andata a male la trama, il papa› e il re di Napoli, che ne erano stati fautori, dichiararono guerra a Firenze, che non indugiò a far gente, é ad invocare l'aiuto di Venezia e di Milano. Comandava i Napoletani e i Pontificii Alfonso duca di Calabria; reggevano l'esercito fiorentino Ercole d'Este, Roberto Malatesta e il conte di Pitigliano, Bentosto si unì loro con una eletta squadra di Milanesi quel Gian Iacopo Triulzio, che illustre per rare gesta, col grado di maresciallo di Francia, col soprannome di grande, dopo avere provato tutto ciò che l'ambizione umana può porgere di dolce e di amaro, sotto altro cielo mori. Qui riassumeremo di lui le prime vicende : più tardi la sua storia non può venire scompagnata da quella di tutta l'Italia.

Nato verso il 1441 di illustre prosapia, educato nei primi studii insieme con Galeazzo Maria Sforza, Gian lacopo Triulzio ebbe le ultime guerre della Lombardia e le gesta medesime di Francesco Sforza per iscuola di quell'arte, nella quale doveva sublimarsi.

(1) Delle liberalità di questo Carlo da Montone discorre a lungo Francesco Filelfo in una sua lettera del 1459 (Epp. I. XIV. f. 105. verso).

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